VENEZIA 69 – "Yema", di Djamila Sahraoui (Orizzonti)


La trasparenza e la chiarezza di Yema ne costituscono tanto un pregio quanto un limite: la regista lascia che la poesia sgorghi da sola, aspettandosi forse troppo dall’immediatezza del racconto e delle proprie immagini, realizzando un film per il quale è difficile non provare ammirazione, ma che non riesce a sconvolgere fino in fondo

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Campagna algerina: dopo aver seppellito il proprio figlio maggiore, ufficiale dell’esercito, una madre (la Yema del titolo) si ritira nella solitudine di un (non) luogo fuori dal mondo. Sotto la supervisione di una guardia del corpo, si dedica alla cura del suo orto come unica ragione di vita; pochissime le intrusioni dall’esterno: quella del figlio minore, attivista pro islam, e quella di due soldati arrivati sin lì per un controllo di routine. Null’altro. La regista e interprete Djamila Sahraoui si concentra su tre personaggi inserendoli all’interno di un paesaggio naturale indifferente a quanto accade nel resto del paese, raccontando il trascorrere delle stagioni – scandite dalle coltivazioni del suo orto – per mettere in primo piano la perdita assoluta, il dolore, la conseguenza concreta più terribile del conflitto: una madre che costruisce il tumulo per la propria progenie. La guerra rimane un altrove distante, presente solamente nei dialoghi e nei racconti, ma ben visibile sulle persone e sui corpi; uccisi, feriti oppure martoriati.

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Yema è il ritratto di un luogo astratto e senza confini, l’unica risposta possibile a un mondo martoriato dalle bombe e dalle armi; la madre è il personaggio che porta sulle proprie spalle tutto il dolore possibile, cercando un rifugio (fisico, ma soprattutto mentale) da ciò che la circonda. Djamila Sahraoui è interessata alla ripetizione dei gesti quotidiani, a quei rituali che scandiscono una vita condannata al lutto ma proprio per questo obbligata a sopravvivere, a guardare avanti, proprio come l’orto e i suoi frutti: dapprima solamente un mucchio di terra arida e secca, che progressivamente riesce a trasformare il paesaggio circostante modificandone le tonalità cromatiche. Esattamente come accade tra le relazioni dei vari personaggi, in un primo momento chiusi e diffidenti gli uni con gli altri, prigionieri di un odio che sembra impossibile estinguere; ma il trascorrere del tempo (e una nuova nascita) saranno portatori di una ventata d’aria fresca, destinata purtroppo ad avere vita breve. Yema è un film che non cerca nessuna profondità di difficile interpretazione, mostrando le piccole cose con trasparenza e chiarezza: il che ne costituisce tanto un pregio quanto un limite, arrivando direttamente al cuore dello spettatore senza però cercare una strada nuova per raccontare un dolore tanto straziante quanto universale. La regista lascia che la poesia sgorghi da sola, aspettandosi forse troppo dall’immediatezza del racconto e delle proprie immagini, realizzando un film per il quale è difficile non provare ammirazione, ma che non riesce a scuotere fino in fondo.

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