VENEZIA 70 – "Hollywood è come un casinò". Incontro con William Friedkin

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In attesa di ricevere il Leone d’oro alla carriera, William Friedkin ha risposto alle domande della stampa. Per l’occasione, il Festival propone una versione restaurata del suo capolavoro del 1977 Il salario della paura.

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In attesa di ricevere il Leone d’oro alla carriera, William Friedkin ha risposto alle domande della stampa. Per l’occasione, il Festival propone una versione restaurata del suo film del 1977 Il salario della paura.

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Il salario della paura  è il remake di Vite vendute di Clouzot: per lei è stato difficile rapportarsi con la cinematografia classica?

 

Assolutamente no, mentre lo realizzavo non ci ho mai pensato. I veri problemi furono di natura fisica, non psicologica: fu un film molto difficile da realizzare, circa cinquanta persone presenti sul set, me compreso, si ammalarono di malaria o altro.  Il mio in realtà è un film diverso, non un remake in senso stretto. Se fai una rivisitazione dell’Amleto a teatro, non farai mai la stessa opera. Ad esempio, adesso sto per allestire una rappresentazione del Rigoletto, non l’ho mai fatto prima, e sono molto eccitato. Ai tempi di Il salario della paura fu molto importante per me cercare di renderlo molto contemporaneo nei confronti di quel momento storico, rimanendo molto attinente alla realtà. Pensate a Il grande Gatsby: esistono molti film tratti dal romanzo di Francis Scott Fitzgerald, e sono tutti diversi tra loro, anche se la storia rimane la stessa. Nel mondo del cinema la maggior parte delle storie sono basate su altre, quelle veramente originali sono poche.

 

Cosa pensa delle idee di Steven Spielberg e George Lucas sul futuro degli Studios?

 

Gli Studios esisteranno ancora per molto tempo, credo. Si occupano principalmente della distribuzione di pochissimi film, preoccupandosi unicamente degli incassi. Il mondo della distribuzione in realtà sta cambiando, i giovani oggi possono fare cose che ai miei tempi non mi sarei neanche immaginato: possono acquistare una telecamera digitale, montare i propri film tramite il computer e distribuirli attraverso internet. Quando cominciai a fare questo mestiere, invece, era molto più difficile. Oggi tantissime persone possono diventare dei cineasti, e il loro numero sta aumentando vertiginosamente. Quando anche la distribuzione delle loro opere diventerà molto più ampia, allora sì che gli Studios incontreranno grandi problemi. Hollywood oggi è come un casinò, dove si gioca e si scommette: con i soldi che investono nella produzione e nella promozione di un film, potrebbero farne cento più piccoli.

 

Killer Joe è sostanzialmente un film indipendente. Avrebbe potuto farlo tramite gli Studios?

 

Assolutamente no, io non voglio fare film di supereroi o di zombie. Non voglio nemmeno vederli, non mi interessano. Allo stesso modo, non avrei mai permesso che Bug o Killer Joe venissero realizzati in questo modo.

 

Qual è il cinema che le piace vedere, oggi?

 

Ormai vedo solamente film che ho già visto, mi piace rivederli in blu-ray. Il tesoro della Sierra Madre, 8 e ½, Quarto potere, Cantando sotto la pioggia, I diabolici, tutto Antonioni. Mi piace molto scoprire le cinematografie dei paesi stranieri, ma ormai non vedo film nuovi da tanto tempo. Amo i Coen, ad esempio. Il divo di Sorrentino, e Gomorra di Matteo Garrone. Non so se sono d’accordo con le loro idee dal punto di vista politico, ma sono dei film straordinari.

 

Lei è famoso per il metodo con cui lavora con i suoi attori, nel tempo il suo carattere si è ammorbidito?

 

Fuck you! (ride) Chiedetelo a Gene Hackman: la sua vita ora è fantastica, sta benissimo, anche se ormai non lavora più. Non l’ho affatto traumatizzato! Il suo personaggio in Il braccio violento della legge era molto difficile, ma i nostri rapporti sono sempre stati buoni. Con gli attori cerco di comportarmi come uno psichiatra, vivo insieme a loro sin dall’inizio della lavorazione di un film. A  Linda Blair chiesi quale fosse stato il momento più tragico della sua vita, e lei rispose che fu la morte di suo nonno. Questo è quello che chiamo memoria sensoriale. Gli attori devono ricordare che cosa li rende felici o tristi nella vita reale, per poter trasportare queste emozioni sul set. In questo modo, io mi limito a dare loro solo alcuni suggerimenti, per provocarli. Gene non aveva tutta quella rabbia dentro, io riuscii a farla uscire. Anche se probabilmente, per un momento, mi odiò più dello spacciatore che doveva picchiare nel film.

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