VENEZIA 70 – Il festival non è un bordello. Le Femen di Kitty Green (Ukraine is not a Brothel)

ukraine is not aa brothel
La rivoluzione glam. Falce e rossetto. Macché baffoni, operai, proletariato: loro hanno inventato la rivoluzione in topless. Loro chi? Le Femen. Sono belle, bionde e nude. L’Ucraina non è un bordello racconta origini, presente e futuro del movimento Femen. Lo ha diretto Kitty Green, una ragazza che potrebbe essere una di loro: bionda, giovane, bellissima

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La rivoluzione glam. Falce e rossetto. Macché baffoni, operai, proletariato: loro hanno inventato la rivoluzione in topless. Loro chi? Le Femen. Sono belle, bionde e nude. Invece di far parte del cast di un film di 007, stanno dentro quello strano film sempre più folle che è la nostra vita. Costellata di telegiornali, di foto su Internet. La loro potenza mediatica è esplosiva: arrivano in un luogo, mostrano ai fotografi i loro seni nudi e gli slogan che, di volta in volta, vi scrivono sopra. Sono dei dazebao in movimento, dei telegrammi recapitati all’umanità con la forza assoluta dei loro corpi. Sono gli ideogrammi di una rivoluzione chic.
Insomma, un fenomeno non da poco. Delle ragazze ucraine che per combattere la mercificazione del corpo femminile usano il corpo femminile, e il suo immenso potenziale di magnetismo, di seduzione. Loro sono più pop delle Marilyn ripetute da Andy Warhol. E non riesci a decidere se combattono per un mondo migliore, o se prima di tutto non sono perfette pubblicitarie di loro stesse. Per capirci qualcosa di più, era utile essere a Venezia. Perché c’era, tra le proiezioni speciali, l’anteprima mondiale di “L’Ucraina non è un bordello”. Il film che racconta origini, presente e futuro del movimento Femen.
Lo ha diretto una ragazza che potrebbe essere una di loro: bionda, giovane, bellissima. Si chiama Kitty Green, è australiana ma col trucco: la madre è ucraina, e lei con le Femen si intende benissimo. Ha passato quasi un anno con loro, in uno di quei casermoni ex sovietici che mettono tristezza solo a guardarli un minuto, così densi di cemento e di rassegnazione, da dove pensi impossibile progettare niente di più che gettare la spazzatura al mattino. Sembra impossibile che da lì siano venute fuori delle pasionarie da copertina patinata. Ketty ha partecipato alle azioni delle Femen, si è fatta arrestare con loro a Roma; ha parlato con le più coraggiose, si è fatta raccontare la loro vita. E ce la mostra. In un film vivace, ben filmato, ben montato, non agiografico né banale.
Apprendiamo che le Femen sono nate cinque anni fa. Sentiamo parlare alcune di loro, le vediamo allenarsi: perché, da soldatesse della bellezza e della guerriglia mediatica, devono imparare a scappare in fretta, e a proteggersi dalle botte della polizia. Vediamo alcune delle loro azioni: far suonare le campane all’impazzata in una chiesa di Kiev, bloccare gli ingressi alla metropolitana, rischiando le botte. Oppure in Turchia, truccarsi da donne islamiche, con l’hijab, e da donne sfigurate con l’acido. Però, tra le pieghe del film, viene fuori qualcosa di strano. Per esempio, nell’azione che le Femen fanno in Turchia, i costi sono sostenuti tutti da uno sponsor, un produttore di lingerie. E per un’altra azione di protesta, sentiamo il loro leader, il loro capo – un maschio! Si chiama Viktor – dire: “Quella, se non fa bene la sua performance, i suoi 200 dollari se li scorda”. Come un produttore di cinema, o un impresario teatrale. E in un’altra occasione apprendiamo che vendono T-shirt e altro con il logo Femen. Tutto un universo di merchandising che è un po’ lontano dall’immagine di rivoluzione che abbiamo noi.
Insomma: né Lenin, una cui frase è pure tatuata sul decolleté di una delle ragazze – “studiare, studiare, studiare” – né Fidel Castro, e neppure Cristo o San Francesco, rivoluzionari quanto e più degli altri. La rivoluzione delle Femen passa dalla carta di credito. E dai media. Combattono la mercificazione, se si vuole, mercificandosi. Però la vita che si sono conquistata è di gran lunga migliore di quella di tante loro coetanee.
In Ucraina oggi prostituirsi sembra una scelta obbligata. Le ragazze non vengono tenute in nessun conto nella società. A chi vuole trovare un lavoro viene proposto solo di andare a letto con chi glielo può procurare”, dice Inna all’incontro stampa. “Se non vogliono andarci, quel lavoro se lo scordano. L’unica prospettiva è diventare una schiava in famiglia o lavorare per il turismo sessuale. Noi combattiamo contro tutto questo”. Loro sì che ci sono riuscite. Rischiando le botte della polizia e il carcere. Però adesso sono luminose, perfettamente truccate, con i tacchi a spillo, i fiori tra i capelli, non hanno lividi, e sono delle dive a tutti gli effetti. Dimenticavamo: adesso vivono in Francia.

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