VENEZIA 70 – Incontro con Merzak Allouache per "Les terrasses"

Merzak Allouache
La 70° Mostra del Cinema di Venezia è giunta al termine. Questa mattina, infatti, è stato presentato alla stampa internazionale Les terrasses di Merzak Allouache, l'ultimo film in concorso. Il regista algerino si è intrattenuto in sala stampa a parlare della sua ultima opera e delle difficoltà del suo paese.

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Merzak Allouache La 70° Mostra del Cinema di Venezia è giunta al termine. Questa mattina, infatti, è stato presentato alla stampa internazionale Les terrasses di Merzak Allouache, l'ultimo film in concorso. Il regista algerino si è intrattenuto in sala stampa a parlare della sua ultima opera e delle difficoltà del suo paese.

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Il film è un interessante spaccato della società algerina. Si è ispirato a qualche opera in particolare?

Io guardo molti film e conosco bene quello che succede nel cinema. Quando lavoro, però, guardo a quello che succede nella mia società e spesso la critico. L'Algeria di oggi vive una difficile sitiazione. Dopo la guerra civile dovremmo vivere un periodo di ricostruzione ma il nostro è un paese malato, incapace di riconoscere la propria malattia. Attraverso le storie ambientate in queste terrazze, luoghi di vita, cerco di guardare la mia terra dall'alto.

Nel film vengono rappresentate delle scene assurde. Sono ispirate a fatti reali?

Riconosco che molte scene siano più facili da comprendere per spettatori algerini. Io sfrutto al massimo le libertà che la fiction mi da e porto le situazioni all limite dell'assurdo. Con queste scene bizzarre cerco di raccontare l'ipocrisia con il quale gli algerini trattano argomenti come l'omosessualità o la pedofilia. Nell'Algeria figlia dei dieci anni di guerra civile c'è molta violenza. Questa si respira dappertutto: nelle strade, nei rapporti, nei dialoghi. Il mio film è un campanello d'allarme.

Si è chiesto come mai nel suo paese non sia avvenuta una "primavera araba"?

Io non sono un politico ma un regista. Io un mio film ho già trattato questo argomento. Nel mio paese ci sono state delle manifestazioni ma sono state subito inquadrate. Anzi noi abbiamo avuto un largo movimento popolare proprio contro lo spirito della primavera araba. Bisogna ricordare che noi, una situazione del genere, l'abbiamo già avuta nel 1988, con la crisi politica. Quella voglia di rinnovamento ha portato ad una sanquinosa guerra civile. La gente non vuole ricominciare a lottare. Da noi quello che succede negli altri paesi arabi è visto con molta ironia.

E' stato facile girare questo film  in Algeria?

Si, il fatto che abbiamo girato in terrazze ci ha agevolato visto che eravamo isolati. In Algeria c'è ancora la cultura della delazione. Nonostante abbia avuto l'appoggio del ministero della Cultura avevo paura che potessero diffondersi voci false sul nostro lavoro. Il cinema da noi è ormai morto. Non esistono sale e i pochissimi cinefili devono coltivare la propria passione in situazioni allarmanti. Il fatto che, nonostante il mio flm sia in concorso, nessuna autorità algerina è intervenuta per sostenerlo è un chiaro segnale di questa situazione.

Il film sembra riprendere il filo de La battaglia di Algeri. E' un paragone azzardato?

No ha ragione. Una parte del film è girato nella kasbah, il mitico quartiere della battaglia dove è anche ambientato il film di Pontecorvo. Io, da giovane, ho lavorato su quel set come stagista. Allora eravamo fieri che si stesse realizzando una pellicola sulla nostra storia. Ora la kasbah è un luogo abbandonato, ignorato dalle istituzioni. Il personaggio del pazzo nella gabbia, omaggio al cinema algerino, racconta proprio una storia legata al rapporto che oggi gli algerini hanno con il ricordo della guerra d'indipendenza.

Nel film c'è pochissima speranza. E' un messaggio terribile, non è d'accordo?

Assolutamente, è non speranza. Solo a riprese concluse mi sono accorto che non ci fosse speranza, ma io sono molto pessimista nei confronti del futuro del mio paese. Speriamo che le circonstanze cambino e mi diano la spinta per girare una commedia.

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