VENEZIA 70 – "La Belle Vie", di Jean Denizot (Giornate degli autori)


Ciò che stona nel film di Denizot è la discrepanza fra la libertà decantata dai personaggi e le scelte registiche adottate, ma quando il film riesce a liberarsi delle sue forzature trova il suo vero essere, raggiungendo a tratti la spensieratezza suggerita dal titolo

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Per il suo primo lungometraggio, il regista Jean Denizot sceglie un fatto di cronaca, l’affaire Fortin, come spunto, ma opta per un trattamento non documentaristico né strettamente fedele alla vicenda reale. Senza ricorrere a flashback o contestualizzazioni ridondanti, il film ci immerge nella storia di due fratelli, giovani adolescenti che trascorrono la loro giovinezza insieme al padre, che li tiene con sé a lavorare nei campi dopo averli sottratti alla madre e alla vita in società. Ma è una vita in continua fuga, costantemente inseguiti dalla polizia e dalle ricerche della madre. I due giovani fratelli non si sono mai ribellati al padre, quel tipo di vita non gli è ostile, ma iniziano a sentire la necessità di intraprendere ognuno la propria strada. Proprio il vuoto lasciato dalla partenza improvvisa del fratello maggiore sposta l’attenzione della narrazione su Sylvain, indeciso se continuare a seguire il padre nel suo eterno spostarsi o iniziare a vivere la sua vita in libertà.

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Ciò che stona nel film di Denizot è la discrepanza fra la libertà decantata dai personaggi e le scelte registiche adottate. Una messa in scena pulita ma fin troppo didascalica non trasmette quell’ampio respiro che ci si aspetta da una storia che proprio nella libertà ripone il suo fulcro. Il giovane corpo dell’attore Zacharie Chasseriaud viene seguito ed esplorato dall’occhio della camera, ma non riesce mai a farsi totalmente carico del sentimento del film. Si decide quindi di affidare le emozioni alle parole, alle spiegazioni, quando forse il silenzio immobile che troviamo nella scena finale avrebbe funzionato meglio. Anche a livello visivo Denizot tradisce una certa ingenuità, come l’insistenza della mdp nel riprendere il libro di Huckleberry Finn letto dal protagonista, come a suggerire in maniera esplicita una chiave di lettura allo spettatore. È evidente lo sforzo di far rientrare la vicenda nel genere dell’avventura e del romanzo di formazione, ma l’eccessiva staticità della vicenda narrata impedisce una evoluzione tangibile nei personaggi. Proprio per questo, la scena finale risulta quasi aliena se confrontata con il resto della storia. Quel momento di stasi bruscamente interrotto, per situazione e costruzione porta subito alla mente la scena finale di Le fils dei fratelli Dardenne. Ma se in quest’ultimo la conclusione interrotta era l’apice di una costruzione emotiva giocata sul non detto e sul silenzio, la stessa soluzione risulta stonare in un film come La belle vie, perché non è stato preparato nessun carico emotivo da raccogliere o far esplodere.

Ma ci sono dei momenti in cui il film acquista un più ampio respiro: le scene che prendono luogo nell’arsura del cielo estivo, nell’eterno rumore della pelle che sbatte contro l’acqua, negli abbracci timorosi dell’adolescenza che scopre il contatto per la prima volta. In quei momenti il film si libera di ogni forzatura e trova il suo vero essere, raggiungendo quella spensieratezza suggerita dal titolo. Ciò che risulta più convincente de La belle vie è infatti la rappresentazione, seppur discontinua, dell’indefinibile tensione adolescenziale, del momento di stasi in cui iniziano a presentarsi la libertà di scelta e la costrizione delle responsabilità. 

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