VENEZIA 70 – "L'armèe du salut", di Abdellah Taia (Settimana della critica)


Ciò che resta impresso del primo film di Abdellah Taia è il ruolo fondamentale, quasi preponderante che gioca il silenzio, effettivo protagonista della scena in diverse occasioni, ma anche prezioso elemento di raccordo. Così la narrazione, fra attimi, brevi e fugaci immagini che si fanno parte quasi di un album dei ricordi (vagamente cristallizzato, per quanto vivido) segue un percorso tutt’altro che lineare

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L’armée du salut (esercito della salvezza), nasce da un romanzo dell'autore stesso, che dopo un paio d’anni di lavoro è riuscito a portare sullo schermo. La struttura apparentemente lineare (quattro atti completati man mano da altrettante dissolvenze in nero) nasconde in realtà quella frammentarietà che “è specchio della vita”. Le passioni, così come gli incontri occasionali, o come i sentimenti più “difficili” da vivere alla luce del sole, spesso altro non sono che elementi in fase di maturazione, il cui ruolo forse, è possibile comprendere con chiarezza esclusivamente nel momento in cui si trovano ormai alle nostre spalle. Dolorosamente già consumati.
La vita di Abdellah, giovane di Casablanca, è costellata da avventure con uomini più o meno sconosciuti della sua città (da un giovane incontrato a un angolo della strada al fruttivendolo del mercato) e momenti piuttosto inquieti trascorsi con la sua numerosa famiglia. In particolare, un fratello maggiore che è al contempo oggetto di devota venerazione e gelosia, un rapporto di intensa complicità con il padre, presenza gentile e affettuosa della vita di Abdellah, così come un costante rifiuto percepito da parte della madre, vittima di fittizie violenze casalinghe e in realtà effettivo perno di forza attorno al quale ruota tutta l’attenzione e l’energia del nucleo familiare. Trascorsi diversi anni da un gesto che si direbbe avere una profonda risonanza sulla sua esistenza –un momentaneo abbandono del fratello maggiore nel corso di un breve soggiorno fuori città- Abdellah è ora un adulto, che ha trovato almeno in apparenza, il coraggio di vivere apertamente le proprie scelte e farsi carico delle inquietudini dell’adolescenza.
Ciò che resta impresso del primo film di Abdellah Taia è il ruolo fondamentale, quasi preponderante che gioca il silenzio, effettivo protagonista della scena in diverse occasioni, ma anche prezioso elemento di raccordo. Silenzio in quanto strumento, dunque, utile a completare ciò che le immagini da sole non possono trasmettere. Così la narrazione, fra attimi, brevi e fugaci immagini che si fanno parte quasi di un album dei ricordi (vagamente cristallizzato, per quanto vivido) segue un percorso tutt’altro che lineare, per preferire al contrario, uno sviluppo che potrebbe per certi versi risultare quasi l’accostamento eterogeneo di più suggestioni. E’ forse l’autobiografismo un po’ troppo orientato a suggerire e impressionare, piuttosto che mostrare apertamente, il limite di quest’opera, per quanto sorgente dei suoi stessi aspetti più impressivi. L’intento di Taia, come ci racconta, è quello di rendere disponibili per i propri spettatori, quelle stesse sensazioni, provate nel corso della sua giovinezza e renderle protagoniste di un progetto universale, per far sì che chiunque possa trovare punti di contatto e similitudini con il proprio vissuto.

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