VENEZIA 70 – “Locke”, di Steven Knight (Fuori concorso)
Se saltano i limiti è grazie o per colpa dell’immenso Tom Hardy, che riscatta la macchina con il corpo, il sangue e le lacrime, ritrova la sua sconcertante presenza fisica in uno sguardo, in una manica rimboccata, in un soffio di naso. Si lascia inquadrare, ma non diventa trasparente, rimane concreto, denso, duro
Ivan Locke non è più dove dovrebbe essere e non è ancora lì dove ha deciso di andare. È in mezzo, in un’auto che viaggia, lontano dalla sua famiglia, dal suo lavoro, dalla colata di calcestruzzo più grande d’Europa. Verso un’altra città, Londra, dove deve regolare dei conti con la sua coscienza, l’onestà, la necessità di verità, il passato e il futuro. Un viaggio lungo un’ora e mezza e il film è tutto lì, aggrappato al volto di Locke, al suo raffreddore, alle sue paure e alla sua determinazione. Solo, nonostante tutto il mondo sembri aver bisogno di lui.
Che Steven Knight sia uno sceneggiatore non c’è dubbio. Da Piccoli affari sporchi alla Promessa dell’assassino, fino alla TV. Riconosciamo, prendiamo atto e accettiamo. Ma il fatto che il film sia scritto “benissimo” non pare necessariamente un merito. Anzi proprio la puntualità e la profondità della scrittura rischiano di chiudere tutto, la storia, la verità (se poi vuol dire ancora qualcosa), la vita, in limiti ancora più stringenti di quell’abitacolo verso cui si guarda, verso cui tutto converge e da cui tutto parte. Anche perché quelle tre macchine da presa su cui fa affidamento Knight non creano movimento, esteriore o interiore, non “girano davvero”. Si limitano a una registrazione meccanica, almeno quanto la cadenza precisa delle telefonate che punteggiano la notte “lunga una vita” di Ivan Locke, a quel trucchetto “drammatico” delle seconde chiamate in attesa… È come se, effettivamente, fosse lo script quel limite di velocità che l’inflessibile capocantiere si rifiuta di superare. Anche per garantire l’esatta durata prevista, pagina per pagina.
In un certo senso sembra di esser di fronte a una deriva simile e opposta a quella dello straordinario All Is Lost. Un altro uomo solo che si gioca la vita. Mentre lì era una questione di gesti silenziosi, mai perfettamente calcolabili, fino al colossale fuck che squarciava il silenzio e il vuoto fino al dio, a un dio, qui è tutto un parlare, dialoghi cadenzati e poi serrati, confronti e scontri. Anche qui i fuck non mancano, ma producono una scarica ben inferiore, come diluiti nell’incastro combinato delle voci, delle crisi, delle brevi speranze. Eppure, entrambi i film, anche viaggiando per direzioni opposte, si ritrovano in un punto, sulla questione centrale di cosa voglia dire ancora essere uomini, su quanto bisogna mettere in gioco e quanto sia lunga la strada per salvare la pelle o l’anima, su quanto siano brevi o infiniti gli effetti, i riverberi dei gesti, delle cose dette, degli errori. Alla fine Locke è un film davvero utopico – o fantascientifico – perché interamente appoggiato sul sogno di aggiustare ogni cosa con una sola decisione, di sciogliere tutti i nodi in un’unica notte. E se saltano i limiti è grazie o per colpa dell’immenso Tom Hardy, che riscatta la macchina con il corpo, il sangue e le lacrime, ritrova la sua sconcertante presenza fisica in uno sguardo, in una manica rimboccata, in un soffio di naso. Si lascia inquadrare, ma non diventa trasparente, rimane concreto, denso, duro, grezzo come le fondamenta di una costruzione eterna e nuova. Ed è questa tenera fermezza a raccontare, meglio di ogni altra cosa, il nostro desiderio incontrollabile di verità. La necessità profonda di essere nudi contro tutti i timori e tutte le paure.