VENEZIA 70 – "Ruin", di Amiel Courtin-Wilson e Michael Cody (Orizzonti)

Film immancabilmente dotato di un suo fascino, Ruin: eppure, va detto, la ricerca ossessiva dell’immagine perfetta ne mina profondamente la credibilità. Un’opera fatta di pochissimi dialoghi, di lunghi silenzi, di improvvise esplosioni di violenza; di attimi che sembrano sempre sul punto di diventare cinema, e che invece si arrestano bruscamente, riportati per terra da una ridondanza estetica troppo derivativa per brillare di luce propria

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Storia di amore e di morte, di fuga e di aperture (impossibili?) verso un mondo finalmente libero dall’oppressione e dalla morte: Ruin di  Amiel Courtin-Wilson e Michael Cody racconta le vite di due giovani (una prostituta e un ragazzo di strada) nell’inferno della città, in una Cambogia ormai troppo vicina alle solitudini delle metropoli odierne, in cui due persone che si incontrano per la strada e cominciano a camminare insieme sembra già di per sé un piccolo miracolo. Dopo aver compiuto un omicidio per difendere la ragazza, i due intraprenderanno un viaggio nelle campagne, negli spazi aperti, dove è la natura a governare il mondo attraverso le proprie leggi immutabili da sempre; una fuga in cui il sogno è sempre in agguato, dove la minaccia della morte proviene da un'altra dimensione sempre in procinto di valicare i limiti del reale.

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Il film di Amiel Courtin-Wilson e Michael Cody guarda smaccatamente al cinema di Terrence Malick, raccontando a conti fatti una versione aggiornata del suo immortale esordio, La rabbia giovane; da un punto di vista prettamente visivo, invece, il riferimento è il Malick moderno, soprattutto quello di La sottile linea rossa: il modo attraverso il quale i due registi filmano la natura è infatti palesemente debitore nei confronti di quello del grande regista americano, frammentando il decorso narrativo, lasciando che  parlare siano le immagini, le luci e la natura. Film immancabilmente dotato di un suo fascino,  Ruin. Eppure, va detto, la ricerca ossessiva dell’immagine bella, perfetta, poetica, ne mina profondamente la credibilità:  la patina visiva che permea il film lo imprigiona in una confezione  troppo costruita, troppo falsa, mai vera, per credere fino in fondo al destino tragico e romantico dei due protagonisti. Un'opera fatta di pochissimi dialoghi, di lunghi silenzi, di improvvise esplosioni di violenza; di attimi che sembrano sempre sul punto di diventare cinema, e che invece si arrestano bruscamente, riportati per terra da una ridondanza estetica troppo derivativa per brillare di luce propria.

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