VENEZIA 70 – "Wolfskinder", di Rick Ostermann (Orizzonti)

Wolfskinder
Non risparmiando nulla al proprio protagonista, l'esordiente regista tedesco Ostermann realizza un romanzo di formazione senza speranze, nel quale il suo giovane eroe non diventa uomo. Solo nella disperazione, infatti, il giovan Hans trova la forza di andare avanti, di gridare fino all'ultimo "Io voglio vivere".

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Wolfskinder
I sommersi e i salvati. Potrebbe essere fuori luogo citare il lavoro di Primo Levi parlando di un film ambientato nella Germania orientale del 1946 (che nulla ha che fare con l'olocausto), ma non è un caso che venga in mente proprio questo titolo dopo la visione di Wolfskinder. Come l'opera dello scrittore torinese, anche il film d'esordio del tedesco Rick Ostermann è una sorta di saggio sulla violenza incomprensibile, sul convivenza quotidiana con la morte, sugli orrori che, quando non sommergono,diventano l'unico nutrimento per salvarsi. Questa pellicola è, infatti, una storia fatta di orrori, ambientata in un mondo quasi apocalittico, dove un minuscolo protagonista, il piccolo Hans è costretto a uccidere la propria infanzia pur di scampare dalla caccia spietata che lo vede come preda. Il ragazzino, dopo aver visto morire di stenti la propria madre e aver perso il fratello che aveva giurato di proteggere, si getta nella ricerca ossessiva di una fattoria, il fantomatico rifugio dove, forse, qualcuno si prenderà cura di lui.

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Non risparmiando nulla al proprio protagonista, il regista realizza un romanzo di formazione crudele, senza speranze, nel quale il  suo giovane eroe non diventa uomo alla fine del suo ciclo. Costretto ad affrontare sempre la situazione peggiore, a compiere sacrifici assoluti, Ostermann arriva addirittura a privarlo, in modo improvviso e insensato, della sua compagna di viaggio, l'unico sollievo rimasto nella sua vita. L'autore regala ad Hans solo una disperazione senza fine, la stessa che gli permetterà di andare avanti. Anche nel finale, dopo l'ennesima devastante delusione, il nome ripetuto all'infinito, quel Hans Arendt detto a se stesso, non è il lamento di un folle ma il grido "Io voglio vivere" di chi non accetta di arrendersi.

Questo non è sadismo.
Ostermann, anzi, è coinvolto personalmente nella vicenda che racconta (la madre ha vissuto molte delle esperienze raccontate nel film). Lui desidera solo prendere il proprio pubblico e mostrargli tutta quella realtà, senza alcun filtro. Questa scelta radicale costa al film la fluidità narrativa e l'intrattenimento cinematografico, ma dimostra come la riscoperta di questa assurda pagina sia storicamente necessaria.

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