VENEZIA 70 – "Yurusarezarumono (Unforgiven)", di Lee Sang-il (Fuori concorso)


Non c’è nulla della rilettura crepuscolare effettuata da Clint Eastwood nel suo capolavoro del 1992, ma il modo migliore per approcciarsi a questo remake è decisamente quello di dimenticare l’originale. Un film in cui tutti gli elementi vanno minuziosamente al proprio posto, un blockbuster pensato per le platee internazionali ma nel quale, almeno per una volta, lo spettacolo è salvo

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Tutti sono a conoscenza dell’importanza di Gli spietati di Clint Eastwood, perché tutti hanno amato la rilettura crepuscolare (in chiave noir) del western classico adoperata dal grande regista americano. Tutti hanno amato John Ford, Howard Hawks, e tutti hanno applaudito le opere di Don Siegel e Sergio Leone alla cui memoria il film fu dedicato; quindi, si potrebbe dire che chiunque farebbe volentieri a meno del remake di un’opera talmente immensa, che nel lontano (già…) 1992 esauriva abbondantemente l’argomento che si apprestava a sviscerare. Ma detto ciò, si potrebbe benissimo pensare a questo Unforgiven come a un qualcosa che non debba necessariamente rapportarsi con l’originale in maniera assoluta e totale; in fin dei conti, la pellicola di  Lee Sang-il è quello che finora mancava a questo festival, certamente di buona qualità ma forse troppo serioso: il filmone in senso classico, il prodotto di entertainment buono per tutte le platee; nello specifico, la rivisitazione di un momento storico molto importante per il Giappone, riletto però attraverso un’ottica e una sensibilità totalmente occidentale.

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Ambientato alla fine del 1800, dopo la guerra che aveva visto la scomparsa dello shogunato e dell’ordine dei samurai, il film ha come protagonista l’ex shogun Jubei, ritiratosi a vita contadina dopo gli orrori del conflitto, che viene convinto a riprendere in mano le armi per vendicare lo sfregio di una prostituta nel bordello di Hokkaido. Data questa premessa, appare palese come questa versione datata 2013 sia estremamente fedele nei confronti del capolavoro di Eastwood, aggiornando le coordinate della vicenda al Giappone dell’epoca e sostituendo il mito della frontiera con quello dei samurai e della loro etica dell’onore e del sacrificio. Unforgiven, dicevamo, sembra seguire traiettorie prestabilite per venire incontro ai gusti del grande pubblico: è un film in cui tutti gli elementi vanno minuziosamente al proprio posto, dosati in maniera più sistematica e matematica che altro. Tramonti rosso sangue, cinemascope denso di terra, acqua e neve, dolly e musiche pompose posizionate al momento giusto: un blockbuster che unisce oriente ed occidente ma che, per una volta, non disturba e non irrita l’intelligenza. Non c’è nulla del western nerissimo e definitivo di Eastwood ma, per una volta, almeno lo spettacolo è salvo.

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