VENEZIA 71 – Con gli occhi chiusi (7): Figli

 

Dearest Peter Chan

Molti film provano ad addentrarsi nei rapporti generazionali padri-madri/figli, in questo Festival. Ma pochi sembrano riuscire ad entrare nel cuore dei rapporti e dei conflitti, mentre spesso il contenitore famiglia sembra quasi volersi occupare d'altro… 

 
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Cosa sarebbe, il mondo, senza i figli?  Non sarebbe. Svanirebbe nel giro di pochi decenni. Almeno per quel che ci riguarda come umani… La nascita e lo sviluppo di quell’incredibile “altro da sé” che sono coloro che abbiamo generato è insieme uno dei grandi misteri e delle meraviglie della vita.  E il cinema sui rapporti padri-madri/figli ne ha costruite di storie, e non solo il cinema…

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In questa edizione del Festival, non sono mancati questi “luoghi”, questi dolci/amari territori di conflitti, ma la sensazione è che i cineasti e le cineaste di oggi siano interessati ad altro, confinando i rapporti generazionali dentro contenitori “malati”, nel senso letterale del termine, a volte.

Ecco Le dernier coup de marteau, della francese (4° in Concorso, mentre il bellissimo Return to Ithaca di Cantet era alle Giornate degli Autori), Alix Delaporte, film applauditissimo dalla critica per i suoi omaggi a Truffaut, con un ragazzo protagonista fin troppo umoralmente vicino all’Antoine Doinel del ciclo più celebre del cineasta francese. Ma dove sta il conflitto? Con la giovane madre, malata di cancro, con la quale convive in una casa-baracca? Con il presunto padre, direttore d’orchestra e mai ufficialmente esistito? Con l’allenatore che lo vorrebbe far acquistare da importanti società di calcio? Il male sembra qualcosa che arriva misteriosamente dal passato, per esplodere in un giovane 15enne che improvvisamente si appassiona alla musica, nella ricerca disperata di un qualsivoglia rapporto con il padre. “Non volevo raccontare una generazione di giovani, quanto piuttosto volevo descrivere il bambino che è in tutti noi “ ha detto la regista, e forse il film sconta proprio questa volontà di essere una grande metafora, problema che attanaglia la maggior parte delle opere viste qui al Lido.

Dove stanno i genitori in Sivas del turco Kaan Mujdeci? Il bambino protagonista (con il cane Sivas) del film sembra vivere più con il fratello maggiore che con i due che lo hanno generato, che appaiono solo in una scena a testa. E’ come se i genitori avessero un ruolo marginale, persino nelle società dove la famiglia ancora viene celebrato come un valore forte. Infatti anche in Revivre, dolcissima fiaba sulla perdita dell’amore (e del corpo d’amore) di Im Kwon-taek, la figlia del protagonista è solo una presenza addolorata e piagnucolante, fino al rimprovero al padre di non aver mai amato la moglie, che pure stava accudendo nella sua (anche qui) lotta perdente contro la malattia. Ma non esplode il conflitto tra padre e figlia, egli semplicemente ne ignora la rabbia, concentrandosi sul suo dolore e sui suoi desideri per la giovane collega. Ci aspetteremmo grandi conflitti, e in parte ci sono, tra Monaldo e Giacomo Leopardi del film di Martone, ma si riducono in diatribe verbali nella prima parte del film, mentre dopo la figura paterna scompare e resta solo come lontano ”finanziatore” del figlio malato nelle terre napoletane. Eppure l’amore (e il rigore) paterno sembrava essere centrale nella storia del giovane poeta, ma tant’è, oggi non sembra trovare più spazio nel cuore delle storie. Infatti in Villa Touma il conflitto della giovane ragazza non è paterno o materno, ma con le zie arcigne e tradizionaliste. E anche in Hungry Hearts di Costanzo il bimbo è troppo piccolo, e il conflitto è tutto interno alla coppia sulla gestione allevamento alimentazione del proprio figlio. Olive Kitteridge sembrerebbe un’opera che lavori dentro queste tematiche, ma il conflitto madre/figlio di Frances Mc Dormand appare non un elemento portante, quanto piuttosto una delle tante derive della innaturale scorbutichezza della donna.

 

Dearest Peter ChanE allora forse è proprio il tanto deriso e maltrattato Manglehorn, di David Gordon Green, a provare a tracciare lineamenti di possibili scontri generazionali, con almeno due scene centrali dove il vecchio padre Al Pacino segna la sua diversità, fisica e morale, dal suo unico figlio divenuto un cinico (e poi perdente) uomo d’affari. Due film, infine, provano a segnare la fisicità della separazione/differenza tra padri e figli: Anime nere, dove il giovane figlio ribelle sarà la causa della tragedia che riesploderà nella diatriba familiare e, soprattutto, in Dearest (che forse resta ancora il film più bello visto qui a Venezia), dove padri e madri reali e madri acquisite faranno esplodere tutta la loro rabbia/amore per il bambino rapito: non un conflitto ma un legame che appare corporeo e materiale, fatto di quotidianità e stupore. In definitiva il film di Peter Chan resta quello che più ha lavorato sul legame reciso tra genitori e figli, territorio privilegiato del più bel film della scorsa stagione, Like Father Like Son, di Kore-Eda.

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