VENEZIA 71 – Con gli occhi chiusi (8): Poeti

 Pasolini Abel Ferrara

Curiosa sintonia tra cineasti così diversi, ma Ferrara e Martone sembrano lavorare entrambi sul corpo dannatamente poetico del Poeta. Non c’è poesia senza il corpo del poeta, sembrano raccontarci questi film e Pasolini e Leopardi, "inascoltati sciamani contemporanei", rilanciano la poesia come un qualcosa di indissolubile dalla sofferenza (e vitalità) del proprio corpo.

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Pasolini Abel Ferrara “L’idea stessa di fare un film sui Poeti di ieri e di oggi rimarca la rinuncia a un fuori tempo che è poi un’accettazione della salutare estraneità di questi inascoltati sciamani contemporanei.” scriveva Massimo Causo nella corrispondenza veneziana del 2009 sul film di Tony D’Angelo, Poeti 

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Il film di D’Angelo era, in anticipo, la (quasi) perfetta chiusura del cerchio: Il Festival di Castelporziano del 1979 è stato forse il punto più avanzato e al contempo devastante del senso e della “messa in scena” della poesia nell’epoca contemporanea. Luogo di consumo e pratica “di massa” di una delle arti maggiormente elitarie, rimessa in gioco dalle esplosioni della Beat Generation e dai movimenti degli anni settanta.

E se il Festival di allora “terminava” a Castelporziano, quello di oggi sembra quasi, attraverso gli occhiali scuri di Abel Ferrara (sono davvero gli stessi, carpenteriani, di Essi vivono?) ripartire poco più in là, all’Idroscalo di Ostia, il luogo terminale della vita di un poeta “più maledetto” di altri, Pier Paolo Pasolini. Ma come il film di D’angelo non era un documentario su Castelporziano, ma dava voce ai poeti di oggi, così “Pasolini” di Ferrara non è un biopic alla Marco Tullio Giordana, ma un viaggio dentro le derive intellettuali e morali del corpo del poeta, nella sua ultima drammatica notte. Non è un caso che Ferrara sceglie e trasforma il corpo di Willem Dafoe, corpo già cristologico scorsesiano, in quello di un “cristo laico e omosessuale”, alla fine incredibilmente somigliante con quello di  Pasolini. 

 

Festival Castelproziano 1979

Il poeta diventa corpo, il cinema diventa il corpo del regista, Pazzesco immaginare questa curiosa sintonia tra cineasti così diversi, eppure anche Il giovane favoloso di Martone sembra andare nella stessa direzione. “Non c’è il corpo della poesia”, prova a spiegare qualche critico in sala, dopo la visione del film. Vero. C’è solo il corpo dannatamente poetico del Poeta. La poesia non è più qualcosa di astratto che si espande dall’intelletto, ma è qualcosa di indissolubile dalla sofferenza (e vitalità) del proprio corpo.E anche se Lepoardi/Germano negherà questo legame tra la sua infelicità e le sue condizioni fisiche, è incredibile come la sua poesia sembra uscire, dannatamente, dalle viscere del corpo malato del Poeta stesso.

Non c’è poesia senza il corpo del poeta, sembrano raccontarci questi film. Non può esserci creatività fuori dal nostro corpo, sorta di materialismo culturale allo stato puro, dove Leopardi e Pasolini si (con) fondono, quasi fossero due “poeti metropolitani” sul palco, poi crollato di Castelporziano, anno 1979, era Nicolini. Dovunque, ritorna, ancora, la “salutare estraneità di questi inascoltati sciamani contemporanei”, essere capaci di un “altro sentire” che hanno provato, invano nella loro contemporaneità, magnificamente nel tempo infinito della Storia, a farci provare a tutti noi.

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