VENEZIA 71 – Court, di Chaitanya Tamhane (Orizzonti)

Court
Lavorando per sottrazione drammatica, Tamhane confeziona un film dall’alto valore politico, scardinando le fondamenta di un genere codificato come il courtroom drama, per firmare una forte accusa non dichiarata delle assurdità del sistema giuridico indiano, che si accompagna a un più ampio, ma sottile, discorso sociale e politico

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CourtCourt, il lungometraggio d’esordio di Chaitanya Tamhane, si configura a prima vista, complice il fin troppo didascalico titolo, come un courtroom drama ambientato nelle aule di tribunale di Mumbai. Diventa presto chiaro, però, che l’apparente semplicità del film cela un discorso ben più profondo e stratificato.

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Il cantante protest folk Narayan Kamble viene arrestato con l’accusa di aver indotto al suicidio un operaio del sistema fognario, trovato morto nel quartiere dove, solo due giorni prima, si era svolto un suo concerto. Nonostante l’assurdità dell’accusa, il caso viene discusso in tribunale nell’arco di numerosi mesi. Ciò che importa al regista però non è l’intrattenimento: le scene di tribunale si svolgono con distesa tranquillità, quasi con noia. Gli elementi procedurali vengono discussi, ma non portano a nessuna soluzione. Sembra quasi che, tanto il giudice quanto gli avvocati non siano poi così coinvolti dal caso in discussione, come invece ci hanno abituati innumerevoli film occidentali dello stesso genere. La scelta compositiva di Tamhane si configura innanzitutto come programmatica e solo in secondo luogo estetica: facendo unicamente ricorso alla camera fissa, col passare del tempo vediamo come la mdp non segua la trama o i suoi protagonisti. Quando la loro udienza è finita ed essi escono dalla stanza, la camera indugia ancora sulla stanza, mentre altri personaggi e altre udienze iniziano. Questi minuti all’apparenza inutili, che tradiscono le aspettative verso un risolversi del plot principale, sono come uno scossone al film intero, che esce da presunte traiettorie obbligate per mostrare come accanto ad una storia ne esistono centinaia di altre. Se in primo momento siamo portati a pensare che Narayan Kamble e il suo avvocato difensore siano i protagonisti, presto il film sembra dimenticarli, interessandosi invece alla quotidianità del pubblico ministero e del giudice, al di fuori del loro lavoro in tribunale. Vengono mostrati insieme alle loro famiglie, nelle loro abitazioni, nell’atto di compiere i più semplici e, per noi spettatori, inutili gesti. Lavorando per sottrazione drammatica, Tamhane confeziona un film dall’alto valore politico, scardinando le fondamenta di un genere codificato come il courtroom drama, per firmare una forte accusa non dichiarata delle assurdità del sistema giuridico indiano, che si accompagna a un più ampio, ma sottile, discorso sociale e politico. Ogni personaggio riceve non tanto un approfondimento psicologico quanto uno studio d’ambiente.

 

Con fare documentaristico, ognuno è ritratto nei suoi luoghi, al di fuori dell’aula di tribunale, dove mostra non la sua veste ufficiale ma i panni di uomo o donna qualunque, di essere umano. E di fronte a queste scene, spesso configurate come composizioni ad ampio respiro dove più punti di fuga e nuclei d’azione hanno luogo all’interno della stessa inquadratura, ogni persona si fa uguale, allo stesso modo ridicola e inerme, di fronte all’incomprensibilità del sistema.

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