VENEZIA 71 – Five Star, di Keith Miller (Giornate degli Autori – Evento Speciale)


“Non faccio differenze fra lo schermo ed il mondo reale”, dichiara il regista alla presentazione della sua seconda opera. Con lui Frédéric Boyer, direttore del Tribeca Film Festival in gemellaggio a Venezia: “Apprezzo il lavoro di Miller perché coglie la cruda essenza della condizione umana”. Cos’è, quindi, che hanno da dire i criminali quando non li si vede agire come tali?

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Checché se ne dica, l’esistenza è fatta di labili confini. Tanto più sono sfumati e sottili, vaghi come una striscia di nebbia che si leva al mattino, tanto più intrigano l’animo umano. Ci si perde in luoghi vaghi, dedali onirici dai quali si fatica ad uscire. Ed è chiaro: tutti noi amiamo la fiction, l’abbandono all’assurdo, e cionondimeno tendiamo a mescolarla con quanto c’è di più vero intorno a noi.

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Keith Miller inizia in questo modo. Il suo rapporto con la realtà è imprescindibile, impressionante, tanto da metterlo in difficoltà nella stesura dei primi script. “E’ una cosa che ho dovuto fare, ma volevo dir loro (agli attori) di non preoccuparsi del copione.” Quel che più importa è il fluire della realtà pura all’interno dell’opera, in modo che si faccia specchio di quegli aspetti della vita che, pur facendone parte, possono passare in secondo piano. E’ in questo modo che lavora su Five Star, presentato in prima mondiale al Tribeca Film Festival ed in prima europea alla 71a edizione del Festival dell’Arte Cinematografica di Venezia, evento speciale fra le Giornate degli Autori.
“Si tratta di un argomento delicato”, ha dichiarato l’americano alla presentazione del film, “l’obiettivo era quello di presentare una storia emotiva, non qualcosa in cui uno prende una pistola ed inizia una sparatoria”.
Ebbene, per quel che ci riguarda, l’autore ha perseguito il suo obiettivo con indiscussa coerenza. La pellicola, 83 minuti, ci racconta le vicende di John Diaz, da poco orfano di padre, e James ‘Primo’ Dent, che lo prende sotto la sua ala protettiva e gli fa da mentore nella malavita di quartiere.
Non parliamo di attori professionisti (Primo è il capo effettivo dei Blood nella vita vera), ma di persone che comprendono perfettamente i discorsi che fanno: quello, per loro, è pane quotidiano. Sembra quasi che vengano spiati da una camera indiscreta mentre parlano ed esplicano quel cumulo di sentimenti che li pone in conflitto con sé stessi. Primo è padre di famiglia, rimpiange di aver perso la nascita del suo primogenito, vorrebbe ‘mettersi a posto’, lasciare la strada per occuparsi onestamente della famiglia. John è un bravo ragazzo, vorrebbe soddisfare le aspettative della gente e dissipare i dubbi circa la morte di suo padre; subisce il fascino dei soldi facili dovuti alla piccola criminalità, prova a perdersi diventando un “cinque stelle”, uno di quelli che comandano lì nel quartiere. Ma la vita in banda è dura, lo avverte Dent, contraddistinta da regole impossibili da infrangere: pena la pelle.

Ed è la diegesi che la fa da padrone, la condizione intimistica dei personaggi che, pur appartenendo a una gang, non sono le tipiche figurine da gang movie. Fiction e realtà si fondono in un equilibrio perfetto nell’opera del regista che, a quanto pare, sembra aver colto davvero l’essenza della condizione umana – dell’umanità da lui scelta – ..e chissà che in futuro non ci riservi altre sorprese!

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