VENEZIA 71 – Good Kill, di Andrew Niccol (Concorso)

Good Kill

 Good Kill ci appare come una sorta di “Occhio che uccide”, corpo distante che, in pochi secondi osservando in un monitor le immagini rilanciate da un drone, deve decidere della vita di alcune persone, in angoli lontanissimi del pianeta. Che succede ai nostri corpi nel momento in cui siamo esautorati dalla fisicità del nostro essere nel cuore della battaglia, nel cuore dell’azione? Prosegue il viaggio di Niccol nello scoprire come siamo mutati noi umani…

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Forse se dovessimo “valutare” (o salutare?) il cinema di Andrew Niccol dalle sue “storie apparenti”, le trame che uffici stampa e critici pigri fanno girare nei loro testi per il pubblico, ci troveremmo di fronte a un cineasta poco interessante. Come se le sue narrazioni non fossero in grado portare lo spettatore lungo le dinamiche delle sceneggiature DOC, dove gli atti sono meravigliosamente rispettati e i punti di svolta precisi ed essenziali, nel plot come nei percorsi emozionali dei suoi personaggi. Era forse particolarmente eccitante il personaggio del regista/produttore Al Pacino alle prese con l’attrice “virtuale” da lui maieuticamente ricreata in Sim/One? E, a dirla tutta, non ci sembra eccitante neppure questo soldato da scrivania interpretato da Ethan Hawke, pilota e combattente ma oggi relegato dietro una consolle e un joystick a “giocare alla guerra” a distanza con i droni militari. Dove sta la sua crisi? In una profonda dissidenza “morale” con la guerra nella quale combatte? No. Quella forse è presente nella sua giovane collega Suarez, che vede ancora una differenza tra vittime civili e militari. La crisi che attanaglia il pilota è relegata dentro il suo corpo alieno, allontanato dal territorio del conflitto, dall’adrenalina del pericolo, dal combattimento diretto, e invece ultraprotetto dietro uno schermo che vede, osserva e…spara.

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Ecco, tutto il cinema di Niccol, forse sin dai tempi di The Truman Show di Peter Weir, sembra quasi disinteressarsi della narrazione classica, dei suoi tempi e motivazioni, per concentrarsi in un delizioso e terribile “altrove”. Ovvero quello dei cambiamenti dei punti di vista dai quali osserviamo il mondo e la nostra vita. Ogni film sembra un tassello di una fenomenologia dei punti di vista, sui loro cambiamenti epocali nell’era della tecnologia digitale, e di come questo cambiamento si porta dietro infinite problematiche di tipo morali, di diritto, di emozioni, di senso.

 

E allora questo Good Kill ci appare come una sorta di “Occhio che uccide”, corpo distante che, in pochi secondi osservando in un monitor le immagini rilanciate da un drone, deve decidere della vita di alcune persone, in angoli lontanissimi del pianeta. Che succede ai nostri corpi nel momento in cui siamo esautorati dalla fisicità del nostro essere nel cuore della battaglia, nel cuore dell’azione? La guerra è sempre stata un qualcosa di separato dalla pace, dalla vita civile. In guerra si scatenano pulsioni (e vicinanze emozionali), istinti primordiali, lucidità e rabbia che nella vita civile vengono tenute e bada, tutte svariate gamme di emozioni e problematiche che da sempre hanno creato la figura e il “concetto” (filosofico e mitologico) del “reduce”. Ovvero colui che torna dalla guerra, dove ne ha viste e provate di tutti i colori, e deve “riambientarsi alla vita civile”. Good Kill ci mostra come questa separazione tra guerra e pace, così come la distinzione tra vittime militari e vittime civili, sia ormai in via d’estinzione. Viviamo con la nostra famiglia, facciamo colazione con loro, accompagniamo i figli a scuola per poi recarci nel nostro ufficio, dove da dietro una scrivania operiamo a distanza in una guerra 11.000 km lontana da noi. Osserviamo il nemico, ne studiamo i movimenti, bombardiamo e ammazziamo e poi, alla sera, ce ne torniamo tranquillamente a casa, al tran tran familiare.

 

Good KillE’ proprio in questo scarto, dove il corpo non è più nel luogo dell’azione eppure vi partecipa con terrificante efficacia, che sta tutta la forza deflagrante di Good Kill, dove i militari diventano una sorta di “occhio di Dio”, giudice universale che vede e punisce e distanza. Il problema non è (più) tanto cosà è moralmente giusto o sbagliato – è legittimo uccidere dei terroristi armati? e un violentatore di donne? – ma cosa diventiamo nel momento in cui possiamo decidere delle vite degli altri comodamente seduti in poltrona, tra un caffè e l’altro. E non è un problema di guerra asimmetrica (la guerra simmetrica è forse persino peggiore di questa, basti pensare alla Prima Guerra Mondiale), ma di astrazione del corpo. Un clic e un’immagine di un’esplosione non sono proprio la stessa cosa di un proiettile lanciato “fisicamente” di cui sentiamo il sibilo, e di cui magari riceviamo l’onda d’urto e la polvere dei detriti. Oggi è lo “schermo che uccide”, non siamo più noi, in un processo di disumanizzazione della guerra che però sempre vittime produce, riducendone però il senso doloroso e terribile della morte procurata.

 

Ci prova, Niccol, a rappresentare un “senso di angoscia possibile” rappresentato dai droni di guerra, con quelle inquadrature della villetta americana middle class di Ethan Hawke, vista dall’alto, identico punto di vista dal quale ogni giorno massacra talebani e civili, eseguendo gli ordini ricevuti. E se arrivassero dei droni a spararci sopra casa nostra?, si chiede qualcuno nel film… La guerra diventa un effetto speciale, simile alla post produzione digitale di un film. Fuori dal cuore sanguinante della battaglia, dove si uccide e si rischia di rimanere uccisi, il “corpo militare” che cosa diventa? Da qui all’automazione della visione, e della guerra, manca davvero poco. La “macchina che vede” di Paul Virilio è diventata, definitivamente, una macchina di guerra. Letteralmente, la visione, uccide…

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