VENEZIA 71 – Il documentario sentito come opera letteraria. Incontro con Frederick Wiseman

frederick wiseman

Ha cominciato a girare negli anni Sessanta, per diventare uno dei documentaristi più celebrati a livello mondiale. Adesso Frederick Wiseman riceve il Leone d’oro alla carriera, e ci racconta come tutto abbia avuto inizio negli anni Cinquanta a Parigi, quando studiava Legge con insoddisfazione, e come la sua passione per la letteratura abbia profondamente influenzato la sua arte.

 

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frederick wisemanHa iniziato negli anni Sessanta, per diventare uno dei documentaristi più celebrati a livello mondiale. Adesso Frederick Wiseman riceve il Leone d’oro alla carriera, e ci racconta la sua arte e come tutto ha avuto inizio.

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È la prima volta che consegnano un Leone d’oro alla carriera a un documentarista, e siamo molto emozionati per questo proprio perché Wiseman difende l’idea che i documentari siano film.

Sono tutti film. Prima si pensava che i documentari dovessero riguardare la medicina o altri argomenti pratici; invece non c’è motivo per cui non debbano essere allegri o tragici, esattamente come altri film. Il modello per me è stata sempre la fiction, in particolare quella letteraria.

 

 

Lei prima di fare un film legge.

Ho cominciato a leggere a cinque anni e leggo ancora moltissimo. Cerco di trasferire parte di quello che leggo nelle poesie, nei racconti e nei film. Non credo che la mia visione delle cose possa cambiare il mondo, ma voglio riflettere nelle mie opere la complessità del mondo in cui viviamo.

 

 

Infatti i suoi film assomigliano a dei romanzi. Quand’è che ha deciso di fare il regista?

Sono contento se i miei film assomigliano a romanzi. La prima volta che ho pensato di usare la telecamera è stato negli anni Cinquanta a Parigi, durante la guerra di Corea. Studiavo Legge, e la odiavo. Per tre anni ho letto romanzi, e alla fine ho deciso di dedicarmi a quello e alla mia arte.

 

 

Alla fine degli anni Sessanta, quando ha cominciato a girare i suoi film, non era in contatto con altri documentaristi e cineasti americani. Ha preso una strada diversa.

Mi trovavo a Boston mentre gli altri cineasti vivevano a New York. Ero un regista solitario.

 

 

Com’è realizzare documentari oggi rispetto al passato?

A parte l’attrezzatura digitale, non vedo differenze. Io lavoro isolato dagli altri cineasti e non so bene cosa accada all’esterno.

 

 

Perché, oltre a dirigerli, produce e distribuisce i suoi film?

Li produco perché è difficile trovare soldi da altri, e li distribuisco perché sono rimasto così fregato dal primo distributore del mio film che ho deciso che fosse la cosa migliore. Mirano sempre tutti a fregarti in qualche modo (ride).

 

 

Lei ha vissuto a Parigi ma è americano. Com’era essere un americano a Parigi in quel periodo?

Ci vivo tuttora. Prima guadagnavo trentacinque dollari al mese, che adesso non basterebbero neanche per un giorno. Andavo spessissimo a teatro e al cinema. Molti americani si erano trasferiti lì, con la fantasia di vivere come Hemingway o Fitzgerald.

 

L’isolamento dalla mischia le ha fornito un punto di vista privilegiato sulla realtà?

Non credo che il punto di vista dipenda dal distacco. Per realizzare documentari non solo ci si deve isolare: si deve provare a trovare una ratio di cosa si è fatto. Quando si torna nella sala di montaggio bisogna analizzare il materiale e chiedersi il perché di certi comportamenti ripresi. Il documentario emerge quando la parte tecnica incontra il comportamento umano.

 

 

È stanco di essere considerato il più bravo documentarista dagli anni Sessanta a oggi?

Non immagino come potrei mai diventare stanco di sentirlo dire.

 

 

Lei non pensa ci sia distinzione tra fiction e documentari?

Non credo. Mi piace fare documentari con una struttura drammatica, complicata, che si occupino di aspetti sottili del comportamento umano. Sia il documentario che un film di fiction devono funzionare a livello letterario e astratto; l’ordine delle sequenze deve dare un’idea di ciò che si cela al di là dell’opera. Non mi piacciono i film didattici, e ancor meno i documentari con scopo educativo. Se si è fortunati, quando si gira un documentario le performance possono essere altrettanto intense di quelle dei film. Nel documentario non si dirigono gli attori, ma si riconoscono certi atteggiamenti. Io sono inciampato nei film che ho fatto. Non posso prendermene il merito: la mia bravura è stata quella di riconoscere.

 

 

frederick wisemanLei che racconta la realtà, come vive questa persecuzione della realtà da parte di internet (youtube eccetera), per esempio nelle recenti decapitazioni?

Non capisco come si possa non essere preoccupati. Non vedo molto internet, ma leggo i giornali. Chiaramente sono preoccupato.

 

 

Il modo in cui gira i documentari è cambiato poco negli anni. Come mai?

Magari non ho imparato niente (ride). Ma mi piace pensare che, nonostante la tecnica sia rimasta la stessa, sia riuscito a migliorarla. Ho sempre odiato le interviste, l’oversound. Voglio che chi guarda un mio film abbia la sensazione di essere presente davvero. Vi fornisco informazioni sufficienti perché voi vi formiate un’opinione.

 

 

Ha appena terminato il suo ultimo film. Ce ne vuole parlare?

Riguarda un quartiere di New York, il Queens, dove nello stesso palazzo sono parlate moltissime lingue. È un po’ come vivere a New York alla fine del diciannovesimo secolo, ma questo è il nuovo volto dell’America. La gente arriva da paesi diversi e si deve adattare.

 

Sta lavorando anche al suo primo documentario, Titicut Follies, in maniera inaspettata.

Frederick Wiseman: Sì, voglio farne un balletto. È un genere che m’interessa molto. Sto lavorando con un coreografo, e ho accettato di farlo solo se potevo essere il primo ballerino.

 

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