VENEZIA 71 – Il grande boh…

Roy Andersson, Leone d'oro a Venezia 71
Un verdetto che ci lascia a dir poco perplessi ha chiuso un'edizione molto faticosa, con la selezione ufficiale probabilmente più debole degli ultimi anni. Troppo poco coraggio nella scelta dei film e strategie di programmazione discutibili con alcuni gioielli incomprensibilmente relegati in sezioni collaterali. Proviamo a fare un punto sulle scelte e sulle urgenze del più antico festival di cinema del mondo

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Siamo stanchi. Di solito è normale al termine di un festival lungo dieci giorni, specie se interamente coperto – come abbiamo fatto quest’anno – con più di 140 articoli. In realtà la fiacchezza l’abbiamo percepita già dalle prime giornate ed è continuata giorno dopo giorno fino ad arrivare all’ultimo atto: un verdetto discutibile che chi ci legge non avrà fatto fatica a capire quanto ci lasci perplessi. Ma andiamo con ordine. Il dubbio che avevamo espresso immediatamente dopo aver letto il programma ufficiale di questa 71esima edizione veneziana si è trasformato in certezza film dopo film. La selezione delle opere in concorso si è rivelata molto deludente soprattutto nella prima metà, forse la più fiacca a nostra memoria da anni a questa parte. Certo, ci sono state alcune folgorazioni: su tutte il grandissimo film di Martone scandalosamente escluso dal palmarès, il notevole ritorno di Konchalovsky (Leone d’argento) e poi la delirante follia antimilitarista di Tsukamoto, il racconto morale di Alix Delaporte, il secondo capitolo sullo sterminio indonesiano firmato Oppenheimer e soprattutto il vertiginoso work in progress su Pasolini di Abel Ferrara. In tutto arriviamo a sei e sono gli “unici” film ad averci veramente convinto su un totale di venti titoli all’interno di una competizione che ha registrato un livello medio prevedibile e monocorde. Ogni tanto ci pareva improvvisamente di essere catapultati in qualche vecchia edizione dei primi anni Novanta, con il cinema d’autore europeo a farla da padrone, un po’ di americani dal sapore indie e le briciole lasciate al resto del pianeta. Il cinema e il mondo sono cambiati da allora. È invece prevalsa un’idea cinematografica asfissiante, quasi novecentesca, vagamente accademica e a tal proposito il riconoscimento al discutibilissimo piccione di Roy Andersson celebra perfettamente la visione cinematografica dell’edizione. Questa Venezia 71 è stata inferiore a nostro parere anche a quella dei due anni precedenti – dove in ordine sparso riuscimmo comunque a veder concorrere per il Leone Tsai Ming-liang, Philippe Garrel, Olivier Assayas, Paul Thomas Anderson, Takeshi Kitano, Kelly Reichardt e Brillante Mendoza.

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Jackie & RyanA prescindere dal Concorso è soprattutto la sezione Orizzonti a evidenziare il cambio di rotta intrapreso da Venezia negli ultimi tre anni: da luogo sfrenato di sperimentazione la sezione è diventata una sorta di “secondo” concorso, con una identità che facciamo fatica a riconoscere. L’idea di programmare uno spazio dedicato ai lavori più inclini alla riflessione teorica e alla contaminazione dei formati ha lasciato il passo a una connotazione meno estrema. Almeno due capolavori presenti in Orizzonti, Hill of Freedom di Hong Sang-soo e Jackie & Ryan di Ami Canaan Mann (probabilmente il film che più di ogni altro abbiamo amato) meritavano il concorso ufficiale. Curioso il caso della Mann, cineasta giovane, talentuosa, in costante crescita, che dopo esser stata selezionata nel 2011 in concorso con Le paludi della morte si è sorprendentemente vista “declassata” in Orizzonti, con un film peraltro decisamente migliore del precedente. Ma non ci meravigliamo: è la stessa cosa che accadde con Sion Sono lo scorso anno. Poca modernità nelle scelte di primo piano e anche quando si riconosce il valore di certi autori li si posiziona comunque prudentemente lontani dalla ribalta. Un po’ come è successo ad altri due grandi film cinesi presentati fuori concorso: il magnifico Dearest di Peter Chan e il fluviale, imperfetto, ma affascinante The Golden Era di AnnHui. Allo stato attuale a Venezia il cinema di genere è relegato a una breve comparsata (quest’anno c’era lo spassoso Joe Dante ma come sembrano lontane le edizioni in cui vedemmo Romero in gara per il Leone d’oro!) e molte cinematografie potenti e in via di sviluppo incomprensibilmente tenute a freno (l’Asia migliore era tutta in Fuori concorso o in sezioni collaterali).

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Detto questo siamo consapevoli come in questa fase storica non debba essere facile rilanciare un festival come Venezia, il più antico di tutti ma probabilmente anche il più penalizzato dal calendario, dalla crescita di Toronto e Telluride e dall’assenza di un mercato che sappia catalizzare l’attenzione delle industrie più influenti
. Il fatto poi che nell’arco di poco più di tre mesi siano in programma tre manifestazioni internazionali di cinema nello stesso paese (Venezia, Roma, Torino) è una anomalia italiana su cui prima o poi bisognerà fare una riflessione seria. Nessuno ha bisogno di tre mezzi festival che si ostacolano tra loro tanto per intenderci. E non vorremmo dover tornare ad affrontare questo argomento tra un mese, quando a Roma inizierà subito un nuovo festival con tutti i suoi problemi istituzionali e organizzativi. Certo è che al Lido in questi anni è stato fatto decisamente un passo indietro rispetto alla dirompente bulimia mulleriana. Ci sono state edizioni in cui la selezione veneziana era a parer nostro all’altezza se non addirittura migliore di quella di Cannes. Oggi non c’è praticamente partita e anzi come offerta filmica Venezia sembra sempre più vicina al Festival di Berlino con il quale peraltro è quasi impossibile competere per organizzazione e qualità delle sale. Anche sul numero di spettatori nutriamo una certa preoccupazione. Le dichiarazioni dei diretti interessati dicono il contrario, ma a occhio le sale ci sono sembrate più vuote rispetto al passato. Qualcosa di diverso va fatto e subito.
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