VENEZIA 71 – La vita oscena, di Renato De Maria (Orizzonti)

La decisione radicale e coraggiosa di Renato De Maria, nell’adattare per il cinema La vita oscena, genera quasi immediatamente un cortocircuito esplosivo, scindendo il film in pellicole distinte che, pur procedendo su piani paralleli, non si fondono mai, costringendolo in un limbo indefinito.

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E' una scelta difficile, quasi estenuante, quella di realizzare un film appoggiandosi esclusivamente sulla voice-over. La decisione radicale e coraggiosa di Renato De Maria, nell’adattare per il cinema La vita oscena, il romanzo autobiografico di Aldo Nove, genera quasi immediatamente un cortocircuito esplosivo, scindendo il giovane Andrea, protagonista e pilastro portante della storia, in due interpretazioni distinte. Da un lato, infatti, abbiamo il lavoro fisico e muto del corpo dolente di Clement Metayer (già visto sul Lido in Qualcosa nell'aria di Olivier Assayas). Dall’altro, invece, brilla la prova vocale/spirituale dell’ottimo Fausto Paradivino, capace solo attraverso la musica della sua voce a restituire la prosa dell’autore. Questa soluzione, però, ha delle conseguenze irrimediabili. La crasi tra voce e corpo porta irrimediabilmente alla creazione di due film che, pur procedendo paralleli, non si fondono mai. Di fronte ai nostri occhi, e a favore delle nostre orecchie, assistiamo al violento tentativo del regista di traslare sul grande schermo la vita di Aldo Nove (una storia forse impossibile da rendere pacificamente Cinema) ricorrendo ad un proprio immaginario estetico fatto di rallenti e azzardi visionari, influenzato, tra gli altri, dal surrealismo di Gondry e dall'edonismo di Refn. Un’esagerata e inusuale sperimentazione visiva (non sempre originale) che, pur sbagliando per eccesso con l’assurdità di alcuni momenti (l'assurda scena dell'amplesso con Iaia Forte) mentre con la figura della Madre di Isabella Ferrari dimostra la conosciuta caparbietà di De Maria di affrontare progetti oltre i limiti. D’altro canto, la poetica autodistruttiva di questo coming of age disperato, perso tra le fatiche di lutti familiari, tentativi di suicidio, droghe e sesso, è raccontato in una sorta di audio-book dove Poesia e Musica (piena delle derive elettroniche di Gianni Maroccolo) si uniscono senza discontinuità, una liricità nera che spinge il film verso un ermetismo ossessivo. Questa schizofrenia indecisa tra la carnalità delle immagini e la rarefazione delle parole, costringe il film in un limbo, incerto sulla strada da prendere e, alla fine, condannato (forse consapevolmente) a rimanere indefinito

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