VENEZIA 71 – Mita Tova (The Farewell Party), di Sharon Maymon, Tal Granit (Giornate degli autori)

mita tovaUn cinema che anestetizza il tema dell'eutanasia da tabù religiosi e luoghi comuni, mostrandosi come bisogno umano capace di cancellare il confine tra fede e miscredenza. Una black comedy dolce e aspra, come bere tutto d'un fiato l'amarezza della vita e ripeterla all'infinito in lingue sconosciute

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Non è mai facile trattare il tema dell'eutanasia in campo cinematografico. O meglio, non è mai facile trattare un tale argomento a prescindere dal contenitore scelto. In pochi hanno saputo avvicinarsi con delicatezza, cogliendone la drammaticità, l'essenza, le sfumature. Tralasciando ovviamente le differenze poetiche, narrative e produttive che ogni film presenta. Siamo lontani dalla frammentazione narrativa, tessuto di opinioni multiple di Bellocchio, e dal raccontare la malattia e la vecchiaia senza alcuna necessità di lieto fine o di sentimentalismo edulcorato, dell'Amour di Haneke. Mita Tova, letteralmente “la Buona Vita”, è la resa dei conti con la Separazione. Separarsi da chi si ama, separarsi da se stessi, separarsi dalla vita. 

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Un gruppo di anziani che vive assieme in una casa di riposo di Gerusalemme, inventa una grezza macchina della morte, per dare l'ultimo saluto a un amico che vuole finire la propria vita con dignità, nonostante una legislazione che vieta l'eutanasia. Tra battute ed uno spiccato humour francese, la notizia della loro invenzione si sparge nella casa di riposo, dove più ospiti si rivolgono agli improvvisati omicidi per compiere l'ultimo passo verso l'aldilà. Tratto da My Sweet Euthanasia, Best Pich Award alla Berlinale nel 2010, Mita Tova è una commedia sulla morte spiritosa, piacevole e sorprendentemente consolatoria. “Nel nostro processo di separazione da una persona cara – affermano i registi – abbiamo scoperto che quando il corpo comincia ad abbandonarci, ma la mente rimane lucida, l'auto-ironia e il non prendersi troppo sul serio, restano il modo migliore per fare i conti con l'idea della morte”. E non dipende dal mero concetto di eutanasia, ma dal fatto che i personaggi sono sempre uniti, nella vita e nel momento di lasciarla. In un microcosmo di affetto, amicizia e solidarietà umana.
Una riflessione spensierata e sorridente, made in Israele, che regala una ventata d'aria fresca ad una tematica  spesso sterilizzata dai media, incapaci di costruire quella connessione di empatia da instaurare con il dolore di una famiglia. Un ultimo battito coraggioso e provocatorio e poi il nero, encefalogramma piatto, come la fine di una proiezione, come la fine di una vita. “La bella mia addormentata, lalala lalala lalala, ha un nome che fa paura, libertà, libertà, libertà” (F. De Andrè).
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