VENEZIA 71 – Otto Dix e il cinema antinarrativo. Incontro con Roy Andersson e il cast

Roy Andersson
Roy Andersson
spiega il suo disinteresse verso il cinema narrativo, la profonda influenza che ha avuto nei suoi film la pittura, e in particolar modo quella di Otto Dix. E la sua volontà di raccontare la Vita, i lati stupidi degli esseri umani, avvalendosi di inquadrature che hanno richiesto quattro anni di riprese. 

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In occasione dell’incontro sul film A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence, erano presenti in sala il regista Roy Andersson, l’agente Philippe Bober, gli attori Nils Westblom e Holger Andersson, i produttori Pernilla Sandström e Johan Carlsson.

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Innanzitutto complimenti per questa comicità dell’assurdo molto efficace. Ma nella scena dell’esperimento scientifico sulla scimmia, le scosse elettriche erano reali? Non avete nel vostro paese associazioni animaliste agguerrite che controllano questo tipo di scene?

 

Roy Andersson: È assolutamente tutto artificiale e funziona molto bene. Non utilizzerei mai animali veri; anzi, la scena vuole proprio mostrare con quale crudeltà gli uomini usano le esistenze.
 
 

Intanto la ringrazio per questo film. Le ultime due scene (quella con la scimmia e quella col cilindro infuocato che contiene persone) vogliono dare significato a tutte le altre, in cui i personaggi si mostrano contenti al telefono che l’interlocutore stia bene?

 

Roy Andersson: Prima di queste due scene una didascalia dice: “Homo sapiens”. Mostro le cose terribili che gli esseri umani sono in grado di fare nel corso della Storia: il colonialismo, gli esperimenti sugli animali, che esistono tuttora. Quel cilindro veniva usato dal popolo assiro: i vinti venivano torturati con quest’arnese per il piacere del pubblico.
 
 

Questo film parla di solitudine, silenzio di Dio, attesa della morte, ipocrisie all’interno delle strutture familiari e sociali. Si accosta ai temi del cinema di Bergman, anche se nei suoi film sono presenti un umorismo nonsense e una presa di distanza. Che rapporto ha col cinema di Bergman?

 

Roy Andersson: Quando frequentavo la scuola di regia, Bergman era il preside. Era la fine degli anni Sessanta, e io e i miei colleghi filmavamo le proteste contro la guerra del Vietnam. Bergman ci disse che se ci limitavamo a filmare gli avvenimenti politici non avremmo mai fatto un lungometraggio. Forse ci sono delle analogie fra il mio cinema e il suo, ma lui non aveva umorismo. Questa secondo me è la differenza più grande.
 
 

Mi spiega il titolo del film, quale posto occupa nella trilogia e che cosa racconta?

 

Roy Andersson: Questo non è un film di narrazione, con un impianto lineare e tradizionale. Ho fatto in passato film narrativi, ma ora ritengo che non sia interessante fare un film con una storia e magari un happy end. Le mie storie si concentrano sulla vita, su qualcosa di più ricco; non si limitano a raccontare la storia di una persona. Voglio continuare a realizzare film usando questo punto di vista particolare sull’esistenza. Questo film parla della Vita. Inizialmente non volevo realizzare una trilogia; poi è nato questo film, e il prossimo lo chiamerò “la quarta parte di una trilogia”.
 
 

Ha usato per la prima volta la cinepresa digitale. Com’è cambiato il suo modo di lavorare sulla profondità di campo?

 

Roy Andersson: Io mi sono sempre ispirato molto alla pittura. Mi ha influenzato soprattutto Otto Dix, pittore tedesco degli anni Trenta, che ha vissuto la Prima Guerra Mondiale. Ha uno stile particolare: nei suoi quadri si nota subito qual è il focus. Nella prima parte della mia carriera preferivo utilizzare campi lunghi senza mettere a fuoco qualcosa di preciso. Ora questo mi sembra impossibile. Oggi la qualità visiva dei film è molto scarsa; si privilegia la narrazione. Pensiamo a un quadro di Rembrandt: potremmo guardarlo per ore. Anche i film dovrebbero essere così.
 
 

La trilogia sugli esseri umani dipende da un suo odio reale verso le persone? E di quanto tempo ha bisogno per realizzare inquadrature così stupefacenti?

 

Roy Andersson: Per quelle devo ringraziare la mia fantastica équipe, formata da scenografi e fotografi bravissimi e giovanissimi. Ho impiegato quattro anni per realizzare questo film e abbiamo lavorato a tempo pieno. È stato necessario: ogni scena richiedeva moltissimo tempo per realizzarla, costruirla, decidere le luci, girarla. Alcune scene hanno richiesto due mesi. Bisogna avere pazienza e dar corpo alla propria visione. Ma devo ringraziare il mio team e il mio produttore.
Riguardo agli esseri umani, odio il loro lato stupido, la loro mancanza di empatia, che ha sempre punteggiato la nostra Storia (si pensi all’Olocausto). Amo la vita e gli esseri umani, ma ne odio alcuni lati.
 
 

Lei ha trattato argomenti universali, ma il punto di vista sulle autorità e sul rispetto delle regole sembra scandinavo. Quanto c’è di locale e quanto di universale?

 

Roy Andersson: Io cerco l’atemporalità, m’ispiro come ho già detto alla pittura. Non ci sono barriere nella Storia. Siamo molto simili, indipendentemente dal paese d’origine, ed è proprio questo che voglio mostrare. Io vivo a Stoccolma, e persone all’altro capo del mondo magari provano i miei stessi sentimenti. Questa somiglianza è bellissima.
 
 

Come pensa si possano conciliare una tale libertà creativa e le esigenze di mercato?

 

Roy Andersson: Mi fido del mio stile: è così che comunico col pubblico. Non amo raccontare storie, ma tracciare dipinti partendo dalla vita. Come metodo d’espressione, del resto, è nata prima l’immagine della parola. Anche i dipinti di Bruegel potreste osservarli per ore. Purtroppo oggi scarseggiano il tempo, il denaro, la pazienza, il talento. Ma sono ottimista, e girerò la quarta parte.
 
 

Gli unici personaggi felici sembrano quelli dall’altra parte della cornetta, o quelli della sequenza nel ristorante tenuto dalla signora zoppa. Vuole dire che l’unica ipotesi di felicità è da ricercarsi nel passato?

 

Roy Andersson: La signora zoppa ama l’uomo. Se i clienti sono poveri, possono pagare con un bacio. Quella scena secondo me è una delle migliori.
Riguardo ai personaggi che si professano contenti che l’interlocutore dall’altra parte della cornetta stia bene, è verosimile. Qualunque sia il nostro stato d’animo, siamo contenti della felicità delle persone a noi care. Da qui la scena dell’uomo che sta per suicidarsi, contento però che i figli stiano bene. È un esempio drastico, ma efficace.
 
 

Qual è il significato della scena con Re Carlo e che tipo di preparazione ha richiesto?

 

Holger Andersson: Abbiamo lavorato in collaborazione con un museo nazionale. I cavalli mi spaventavano un po’ ed ero nervoso. Nella Storia ci sono stati cavalli, come quello di Troia, molto importanti. M’interessava realizzare quella scena, ma quando il personaggio torna dalla guerra io non vengo più inquadrato. C’era una controfigura brava a cavalcare.
 
Roy Andersson: Il re era responsabile solo di fronte a Dio, e Re Carlo si comportava in questo modo. Aveva paura delle persone e della vita. Era inoltre chiaro che fosse gay, nonostante fosse un simbolo di virilità e di potere in Svezia per i politici di destra. Nessuno aveva mai osato offenderlo dicendo che era omosessuale, e io volevo riscrivere la nostra storia con una sorta di errata corrige. Riconoscendo che fosse gay, e trasformandolo in un simbolo più onesto. Oggi la Storia è fondata su una sorta di “russofobia”: si è sempre stati spaventati dalla Russia, e con la crisi ucraina questa paura è aumentata. Quando l’Unione Sovietica si è dissolta, non c’è stato spargimento di sangue. Il giorno dopo gli svedesi hanno mandato armi nell’ex Unione Sovietica, nei Balcani, ed è stata una scelta assurda. I russi non vanno trattati così. Io amo moltissimo la cultura russa: i romanzi, il cinema. La signora con il cagnolino di ?echov è fondamentale per tutta l’umanità: vi si trova il senso del destino degli esseri umani. Ma forse della questione fra Russia e Ucraina possiamo parlare in un’altra occasione.
 
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