VENEZIA 71 – Retour à Ithaque, di Laurent Cantet (Giornate degli Autori)

retour và ithaque

Un film su Cuba, su una nazione rivoluzionaria e dittatoriale, su una città bellissima e ferita, che sfonda le pareti e attraversa gli spazi angusti della terrazza e riempie le parole. Ma anche un grande freddo che attraversa i mari e parla con la disarmante forza emotiva dei rapporti che racconta. Un film, come sempre in Cantet, che ha la tenacia ossessiva di cogliere il politico nell’intimo degli animi e dei sentimenti. E viceversa

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retour à ithaqueCon Cantet c’è sempre la speranza di ritrovarsi in un luogo utopico, una specie di mondo magico in cui sperimentare la possibilità di una condivisione, quello in cui ognuno può essere liberamente se stesso fuori dal vincolo del “posto fisso”, dalla guerra di posizione dello stato sociale. La spiaggia di Vers le Sud, la classe di Entre les murs: si misura per un attimo la possibilità di un’erosione dei rapporti di forza in nome di una folle, straordinaria verità dei rapporti. Ma la macchina è un magnete: i professori restano professori e gli allievi allievi, il nero è nero e non si può toccare la donna bianca. Anche se in fondo, sul campo di battaglia non c’è distinzione tra vincitori e vinti (se non sul piano di un giudizio politico e morale): l’oppressione del capitale è rovesciata dal comunismo della solitudine. “I turisti non muoiono mai”, ma vivono come se fossero già morti da sempre.

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Su quella terrazza di L’Avana, palcoscenico (nel vero senso del termine) del film, l’utopia sembra potersi realizzare davvero. Perché in fondo si tratta di cinque amici che si incontrano dopo sedici anni. Ballano, ridono, litigano, ricordano, piangono. La libertà pare un presupposto e non una conquista. E, difatti, quel ballo sgangherato e tenerissimo dell’inizio è a una promessa di gioia, risponde alla stessa vitalità di quegli splendidi e concitati momenti de La fuente, degli scherzi tra i compagni di classe, delle bravate ribelli delle foxfire. Il ritorno a Itaca dell’Ulisse Amadeo riporta in asse il mondo degli uomini con quello degli dei. Rimette in ordine le cose. Tutto è di nuovo a posto. E non più in fabbrica, ma a casa. Ma quale casa?

Qui i termini della questione vanno rovesciati. Pur se inchiodati ai ricordi, ai dolori della vita, alle speranze perse, alle disillusioni, i cinque amici non appartengono più al proprio paese, alla propria città, se non in ragione di un vissuto, di un passato sentimentale, fatto di passione, fede, attivismo. Sono degli sradicati. E hanno perso tutto, insieme alla giovinezza: gli ideali, certo, ma ancor più l’entusiasmo, la forza di poter credere a una nuova forma del mondo. Hanno la piena consapevolezza di essersi prostituiti, cioè di aver ceduto una parte della loro innocenza in nome di un’illusione di felicità (il contratto sociale? È un punto fisso del cinema di Cantet…).

 

retour à ithaqueRetour à Ithaque è un film sull’esilio esattamente come gli altri lavori di Cantet erano il racconto di un blocco, di un’impasse insuperabile. Ma il risultato però è lo stesso: la chiara percezione di un’espropriazione economica del tempo e del spazio, la consapevolezza di uno smarrimento globale. Seppur in tutte le sfumature possibili date dai rimorsi, dai sensi di colpa, dalle rabbie mai sopite.

Cantet ha “l’umiltà” di accettare l’estraneità del suo sguardo e di ammettere, quindi, la possibilità che il film non sia solo “suo”, ma anche del cosceneggiatore, lo scrittore Leonardo Padura, dei magnifici interpreti, che rimettono in gioco se stessi, la propria giovinezza. Tutti recitano, ma solo fino al momento in cui lasciano venir fuori quello che tengono nascosto tra le pieghe delle loro storie. Il rigore traballa di fronte all’emorragia emotiva “cubana” dei volti, dei dialoghi. Eppure tutto sta a cogliere negli altri la radice a cui apparteniamo.

Sì, è vero, Retour à Ithaque è un film su Cuba, su una nazione rivoluzionaria e dittatoriale, su una città bellissima e ferita, che sfonda le pareti del palcoscenico e attraversa gli spazi angusti della terrazza, riempie le parole, invade il campo delle immagini con il riflesso delle sue luci, l’eco dei suoi suoni, il caos e il fascino misterioso delle altre terrazze, e delle strade e del lungomare. Ma questo è anche un grande freddo che attraversa i mari e parla con la disarmante forza emotiva dei rapporti che racconta. Un film, come sempre in Cantet, che ha la tenacia ossessiva, la capacità di cogliere il politico nell’intimo degli animi e dei sentimenti. E viceversa.

 

retour à ithaqueCambia l’ambiente, non più il mutismo operaio, né la lotta quotidiana, l’incendio della lingua delle banlieu. Parliamo di intellettuali falliti, di una “borghesia” negata. La lingua è comune, vola veloce, tra le battute di dialogo ininterrotte. Ma è una lingua che piange. E Cantet è lì, fedele al suo cinema di “piccoli sistemi”, di microcosmi da indagare con un dispositivo da reinventare ogni volta. Due camere, stare sui volti, misurare le distanze… E come sempre questi dispositivi non sono ermetici, sono aperti, hanno confini rinegoziabili. Sono pronti a registrare ogni minimo smottamento dell’ordine e del cuore, l’istante in cui les murs cadono a terra, in cui la finzione lascia il posto alla vita che si svela. E per una volta tutto sembra aprirsi a una speranza inaspettata. Sarebbe possibile questa speranza qui da noi? "Forse no", risponde lui. Ma per un attimo non gli crediamo.

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