VENEZIA 71 – The Lack, di Masbedo (Giornate degli autori)

the lack

Il linguaggio di Masbedo abbraccia la creatività aprendosi a nuove forme, meno narrative e più avanguardiste. L’incrocio di diverse esperienze genera un cortocircuito espressivo che non riesce a trovare il giusto equilibrio delle parti. Il passaggio dalla performance al cinema sembra incompiuto, accennato o forse chiuso nel suo autocompiacimento

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Un tendone circense campeggia in una landa desolata. Al suo interno niente pubblico, solo un gruppo di donne assorte nei propri pensieri. Lo spettacolo della vita ha inizio. Sarebbe sbagliato parlare di film a proposito di The Lack. Si tratta infatti di un’esperienza visiva che esplora il tema della mancanza dal punto di vista femminile, declinandolo in molteplici forme: l’abbandono di una persona amata, il viaggio verso un luogo dimenticato, l’ultimo saluto prima della partenza, una seduta psicanalitica che scava nel buio dell’anima. Quattro episodi collegati da una comune fragilità emotiva costellata di ansie, incertezze e tormenti in attesa di essere affrontati.

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La parola lascia il posto alle immagini. Silenzi e respiri dominano l’assenza di un mondo in cui l’umanità è estinta o è diventata un flebile ricordo. Gli spazi perdono le loro coordinate geografiche per assumere una forza metafisica che anima le protagoniste accompagnandole in una peregrinazione solitaria. Non siamo però in una dimensione puramente concettuale: a una ricerca formale che inghiotte lo spettatore nella contemplazione archetipica dei paesaggi – l’Islanda ma soprattutto Lisca Bianca, scenario di una celebre Avventura – corrisponde la rinascita spirituale dell’universo femminile che avviene attraverso il contatto con gli elementi della natura (la neve, il mare, la terra). Un rito purificatore di indubbia suggestione che sposta l’interpretazione a livelli nascosti (e inaccessibili).

Il linguaggio di Masbedo – crasi per Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni, duo di video artisti che nel 2012 aveva realizzato il documentario Tralala, sempre ambientato in Islanda – abbraccia la creatività aprendosi a nuove forme, meno narrative e più avanguardiste. L’incrocio di diverse esperienze genera un cortocircuito espressivo che non riesce a trovare il giusto equilibrio delle parti. Il passaggio dalla performance al cinema sembra incompiuto, accennato o forse chiuso nel suo autocompiacimento. L’estrema soggettività dello sguardo, che ricorda l’estetica dadaista (la pianta con i gusci d’uovo), può sicuramente affascinare per l’acuto sperimentalismo. A discapito però della perdita di coscienza, quella femminile, costretta a vagare in un flusso indistinto di sublime bellezza.

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