#Venezia 72 – The Danish Girl, di Tom Hooper

Per Eddie Redmayne ancora un ruolo all’insegna del trasformismo fisico, dopo il successo ottenuto con La teoria del tutto; quella del biopic sembra essere una delle strade più sicure intraprese dal cinema anglofono degli ultimi anni, al punto che, oltre al citato film sulla figura di Stephen Hawking, si potrebbe paragonare questo The Danish Girl anche all’altro titolo forte della stagione scorsa, The Imitation Game. Tre film, tre storie vere e, apparentemente, pochissimi punti in contatto; eppure l’approccio alla materia sembra essere pressochè identico, con minime variazioni di stile. Quei loro “tratto da una storia vera” si trasformano così nel pretesto per mettere in scena vicende reali e dal grande afflato drammatico, nelle quali però la Storia non riesce mai a entrare veramente, e insieme a lei tutto quello che vi ruota attorno (vite, persone, cambiamenti epocali e sociali). The Danish Girl racconta la vita di Einar Wegener, apprezzato paesaggista nella Copenaghen degli anni venti; quando la moglie Greta gli chiede di posare in abiti femminili al posto di una modella, per l’uomo comincia una graduale e sofferta scoperta della propria sessualità nascosta, fino alla definitiva accettazione di sé e alla decisione di operarsi per cambiare sesso, diventando il primo paziente a sottoporsi a questo intervento chirurgico. In alcuni momenti Tom Hooper sembra riprendere alcuni aspetti già emersi nei precedenti Les Misérables e – soprattutto – Il discorso del re, dove le stanze e gli ambienti chiusi diventavano una sorta di testimone muto e silenzioso, dichiarando un’attenzione per la messa in scena forse passata troppo in sordina rispetto ad altri elementi; in tutta la sua prima parte The Danish Girl è infatti un continuo chiudersi dentro (lo studio nella casa dei protagonisti) per guardare fuori: attraverso i paesaggi dipinti, i ritratti; insomma, attraverso l’Arte. Arte che viene letteralmente messa da parte e abbandonata nel momento stesso in cui Einar comincia progressivamente a trasformarsi in Lily, rifiutando la mediazione della pittura come strumento attraverso il quale rapportarsi con il mondo, utilizzando invece il proprio corpo e l’insoddisfazione che deriva dal dover vivere entro abiti (e usi, e abitudini) che non si sentono più come propri. Un aspetto decisamente interessante, che però Hooper soffoca dentro i confini di uno sguardo troppo educato per trasformare veramente il corpo del suo protagonista nel cuore del film, nello strumento attraverso il quale raccontare un universo che implode e muore per lasciarne il posto a un altro. Non è un caso allora che il pur bravo Redmayne si lasci rubare la scena da Alice Vikander, la moglie Greta, forse il personaggio più sommessamente drammatico dell’intera vicenda: perché è lei a sopravvivere, dopo essere stata la testimone impotente di una trasformazione che ha portato via con sé sentimenti e relazioni, modi di vivere e status quo (e infatti l’unico momento di cinema vero e vibrante sembra essere l’addio in stazione, quando Greta stringe Einar per l’ultima volta, prima di salutare l’arrivo di Lily). Attraverso lei Hooper riesce là dove invece ha fallito con Einar/Lily: nel trasformare cioè il suo personaggio in chiave di lettura di un mondo che sta cambiando e scomparendo. Quindi, senza limitarsi a mostrare gli aspetti più superficiali di una vicenda che altrimenti qui viene raccontata attraverso un dosaggio calibratissimo di gioie e dolori, incanalando tutta la struttura del film verso una direzione a senso unico, fino al volo finale della sciarpa trasportata dal vento che tradisce e smaschera tutta la facilità dell’operazione. Non che sia un peccato mortale, voler essere facili: non ha senso accanirsi contro The Danish Girl quando, in fin dei conti, vuole solamente raccontare una storia. Si dirà che gli attori sono bravi, e i paesaggi splendidi: tutto vero. Ma il Cinema, intanto, guarda altrove…

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