#Venezia 72 – Una buona annata

Un’edizione convincente a livello qualitativo superiore anche a Cannes. Restano perplessità ancora su come la location accoglie l’evento e la concomitanza di date con Toronto

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Non è un’ottima annata come il grande film di Ridley Scott, ma sicuramente è buona, anzi più che buona. L’edizione appena conclusa del 72° Festival di Venezia ci è sembrata la più convincente dell’era Barbera. Anche rifacendosi ai dati delle nostre pagelle, 12 film del concorso erano sopra la sufficienza con i picchi di Francofonia di Aleksandr Sokurov (8,50), Rabin, the Last Day di Amos Gitai (8,33), Behemot di Zhao Liang (8,00). E, come lo scorso anno, è andata bene la selezione italiana con Sangue del mio sangue di Marco Bellocchio (7,89) e Per amor vostro di Giuseppe M. Gaudino (7,70), rispettivamente al quarto e al quinto posto. Più in basso – e dispiace per la posizione perché questo è uno dei film che ha spaccato la redazione – A Bigger Splash di Luca Guadagnino (5,89) che comunque ha sedotto alcuni di noi che prima non amavano il suo cinema, e infine L’attesa di Piero Messina con 5,60. L’anno scorso la squadra italiana – composta da Mario Martone (Il giovane favoloso), Francesco Munzi (Anime nere) e Saverio Costanzo (Hungry Hearts) – erano state tra le punte di un’edizione che, almeno nella nostra redazione, era apparsa in tono minore.

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francofonia di aleksandr sokurovVenezia 2015 invece si porta appresso tanti piccoli e grandi colpi di fulmine: il fusso della Storia e dell’arte di Sokurov, il fantasy di Bellocchio, quasi l’altra faccia di un Dracula coppoliano, il cui finale resterà nella nostra testa per molto tempo, le maiuscole prove di Valeria Golino in Per amor vostro e Fabrice Luchini in L’hermine, giustamente premiati per le migliori interpretazioni; per l’attrice si tratta tra l’altro della seconda Coppa Volpi a 29 anni da Storia d’amore di Francesco Maselli. Hanno lasciato il segno anche l’energia di Jerzy Skolimowski con 11 minutes, il dolore e la follia del potente Abluka del turco Ermin Alper, il sottile narcisismo ma anche il coraggio di un altro film che a Sentieri Selvaggi ci ha diviso come Equals di Drake Doremus o le memorie/proiezioni della mente e dello spirito di Laurie Anderson in Heart of a Dog. E poi la sorpresa, la vera scoperta di questa edizione, il cinese Behemot di Zhao Liang. Dentro la polvere rossa, gialla che diventano quasi dissolvenze, con le città fantasma vuote che sembra di percorrerle da dentro.

afternoon tsai ming-liangInnanzitutto un dato. Ci è parsa di buonissimo livello la delegazione statnitense. A cominciare dallo straordinario Spotlight di Thomas Mc Carthy, teso e incalzante come il cinema politico americano degli anni ’70, per proseguire con le vertigini 3D di Everest di Baltasar Kormàkur, fino al ritorno alla grande di Johnny Depp in Black Mass di Scott Cooper. E, oltre a Drake Doremus, anche Cary Fukunaga con il suo Beast of a Nation, pur nelle riserve, ha creato un affresco imponente, trascinante soprattutto dal punto di vista sonoro.

Appunti sparsi. Dove la media voto delle pagelle di Sentieri Selvaggi (6,29, decisamente più alta rispetto il 6,01 della scorsa edizione) è stata superiore a quella di Cannes (6,00) anche se inferiore in una delle più belle Berlinali (6,52) degli ultimi anni.

Ovviamente c’è qualche rammarico. A cominciare dal film vincitore, il venezuelano Lorenzo Vigas con Desde allà (5,00) che non ci è apparso come uno dei segni di novità del cinema sudamericano, a cominciare dal modo in cui risulta piatta la rappesentazione di Caracas fino ad alcune discutibili soluzioni iperrealiste. E lascia interdetti anche la presenza in concorso di film come A Danish Girl di Tom Hooper e soprattutto di The Endless River di Oliver Hermanus. Ma questo è inevitabile in una competizione con 21 titoli. Così come i premi della giuria rispetto alla qualità del concorso. Solo che la giuria presieduta da Alfonso Cuarón, aveva molti titoli buoni tra cui scegliere. E la soluzione del Toto-Leone dell’ultim’ora, Behemot di Zhao Liang, avrebbe dato uno slancio. Sicuramente al regista. Forse anche al Festival.

Tra le folgorazioni di Venezia72 ci sono soprattutto Afternoon di Tsai Ming-liang (il film che nelle pagelle ha avuto la media più alta in assoluto con 8,71 e Non essere cattivo di Claudio Caligari con 8,20, risultando così il miglior film italiano. Ci saranno state sicuramente delle ragioni, ma c’è il rimpianto di non aver visto questi due titoli in competizione soprattutto dopo che sia la produzione del film italiano sia il regista taiwanese avevano pubblicamente espresso questo desiderio.

Due grandi eventi hanno funzionato bene come la presenza di Johnny Depp e di Vasco Rossi. L’impressione però, tranne nella giornata di domenica 6, è stata sempre quella di un Lido dove la sera, anche nelle vicinanze della Sala Grande, c’era un passaggio di pubblico inferiore alle attese, sicuramente minore rispetto a una decina di anni fa.

non essere cattivoOra se il livello qualitativo ci è sembrato quest’anno all’altezza, forse il Festival deve recuperare quella vitalità che ha spesso caratterizzato la sua Storia. I tempi ovviamente cambiano, c’è la crisi e la nuova generazione di spettatori ha sicuramente un approccio differente al cinema. Ma, per esempio all’inizio degli anni ’90, la presenza del Festival si sentiva già sul Viale S. Maria Elisabetta. Ovviamente c’erano luoghi culto, come il viscontiano Hotel des Bains, che oggi non esistono più. Invece al Lido il Festival sembra prendere vita solo nelle vicinanze delle sale.

Poi un aspetto su cui bisognerebbe lavorare è l’ospitalità. Questo è un problema più organizzativo che artistico. Non si può andare a cena verso le 8 e sentirsi dire: “Si, il tavolo c’è ma avete 25 minuti per mangiare”. Ed in più, personalmente, si è trovato solo un ristorante dove era possibile mangiare fino a mezzanotte che era quello cinese.

Altro problema. L’atteggiamento di pubblico e certa stampa nei confronti di alcuni film quando vengono fischiati. C’è modo e modo per manifestare il proprio dissenso. Queste reazioni non si sono mai viste (almeno personalmente) a Berlino, Cannes e Locarno. A Roma si. Ricordate l’accoglienza a Paolo Franchi con E la chiamano estate? Ebbene, le reazioni a A Bigger Splash di Luca Guadagnino hanno dato l’idea di essere programmaticamente organizzate, forse già dagli haters in rete. Forse questo è un punto da cui ripartire: favorire il confronto, anche lo scontro dialettico-critico. Vedere gente che s’infervora così si vede di solito solo al Lido, come era accaduto 11 anni fa ad Ovunque sei di Michele Placido. Sono forse piccoli dettagli, anche insignificanti. Ma potrebbero forse essere punti su cui ripartire, per ridare prestigio internazionale a Venezia. Senza guardare a Toronto, dove nell’ultima parte si sono accavallate le date; l’evento canadese è iniziato infatti il 10 settembre. E alcuni giornalisti, soprattutto internazionali, sono partiti prima. Forse questa cosa si poteva evitare.

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