#Venezia 73 – Safari, di Ulrich Seidl

C’è la convinzione che il cinismo che da sempre lo contraddistingue sia ancora sempre e comunque l’unico strumento per istruire lo spettatore. No, grazie.

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Quelle ripetute standing ovation in Sala Grande alla comparsa del suo nome nei titoli di testa ormai non stupiscono più, anzi. In qualche modo decretano già una vittoria personale di Ulrich Seidl. La vittoria di un regista e di un cinema che antepongono la fama ai contenuti, la provocazione alla riflessione; un successo prestabilito in partenza ormai, decretato da chi ha già deciso che così deve essere. Per tutti gli altri, per quelli che non ci stanno, cosa rimane? Il solito Seidl sadico, freddo e chiuso, ovviamente. Anche se Safari non è il film più fastidioso del regista austriaco (il che è tutto un dire), né quello più respingente, rimane ugualmente l’ulteriore peana a uno sguardo asettico e privo di respiro, che insegue costantemente lo spettatore attraverso la messa in scena della crudeltà (sugli animali, in questo caso), finendo accerchiato dal suo stesso cortocircuito contenutistico che, in ultima analisi, non arriva da nessuna parte.

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Documentario (con momenti di fiction) su un gruppo di turisti occidentali alle prese con la caccia grossa in Africa, Safari segue i personaggi nella loro ricerca di leoni, zebre e giraffe: lascia la preda fuoricampo finchè questa rimane nel mirino del fucile, salvo poi incollarcisi nei suoi momenti di straziante agonia. Ecco, questo è Seidl. E poco importa che alla fine al regista facciano schifo un po’ tutti gli esseri umani e le loro crudeltà, il risultato non cambia. Più amorale che immorale, vorrebbe quasi denunciare l’orrore che mette in scena, ma è talmente autocompiaciuto nel filmare il momento della morte di una giraffa, con il suo collo che si contorce dal dolore, che una presa di posizione nei confronti di questo cinema ci sembra necessaria.

Non è più tempo dei mondo movies di Jacopetti e Prosperi, ovviamente: nel 2016 Safari

safari2punta il dito contro il colonialismo (il lavoro sporco lo fanno sempre i neri) e la stupidità ottusa dell’uomo bianco, borghese in vacanza oppure grasso e ignorante, ma non ci crede più nessuno. Che l’uomo sia una bestia, in fin dei conti, ormai l’hanno capito quasi tutti: ma a volte ci vorrebbe un sussulto, un punto interrogativo, uno spunto di riflessione in più. Tutte cose che Seidl rispedisce al mittente, nella convinzione che il cinismo che da sempre lo contraddistingue sia ancora sempre e comunque l’unico strumento per istruire lo spettatore. No, grazie.

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