#Venezia 73 – The Bleeder, di Philippe Falardeau

Un cuore che batte e che racconta una storia immergendola in un immaginario popolare con il quale tutti hanno fatto i conti, in un modo o nell’altro. La dimensione epica e sottovoce di Chuck Wepner

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Ascesa (relativa) e caduta di Chuck Wepner, pugile statunitense che ottenne un breve periodo di notorietà grazie soprattutto alla sfida nel 1975 per il titolo dei pesi massimi nientemeno che con Muhammad Ali; soprannominato “The Bleeder” (il sanguinolento) per l’estrema facilità con cui era solito ferirsi il volto durante i match, nonché il reale ispiratore di Sylvester Stallone per il personaggio di Rocky (leggenda vuole che l’attore abbia avuto l’idea per il film proprio la sera dello “storico” incontro con Ali, rimanendo affascinato dalla sua resistenza fisica e morale). Il film di Philippe Falardeau abbraccia fino in fondo la poesia degli ultimi, dei perdenti, degli eroi destinati a rimanere nelle zone d’ombra della Storia, per raccontare una storia come tante altre, una parabola umana e sportiva senza clamori e senza gloria. E in fin dei conti il merito di The Bleeder non risiede certo nell’originalità, con il suo andamento narrativo preconfezionato e fin troppo prevedibile, anche per tutti coloro (e non sono pochi) che non conoscono le reali vicissitudini del protagonista: i combattimenti nelle palestre di periferia, i primi timidi successi, l’opportunità di confrontarsi con un Mito del calibro di Ali e la successiva, seppur breve, esplosione di fama dovuta alla tenacia dimostrata (tutti lo davano sconfitto per KO al terzo round, e invece resistette fino a una manciata di secondi dalla fine). E poi i vizi: l’alcol, le donne e la cocaina, causa della fine del suo matrimonio e inizio del periodo più buio della esistenza, fino all’arresto per traffico di stupefacenti. Il tutto messo in scena da Falardeau attraverso uno stile piatto e monocorde, che rimastica gli anni Settanta come se nulla fosse: la pellicola sgranata, la macchina a mano, la colonna sonora ad hoc, persino un timido accenno di split screen. Nulla manca all’appello per questo bignamino registico e narrativo che sembra bell’e pronto per essere dimenticato, se non fosse per la bellissima prova di un gigantesco Liev Schreiber.

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Ma allora perché, in fin dei conti, The Bleeder piace e appassiona? Perchè nel

the-bleeder2mezzo c’è anche qualcos’altro, un cuore che batte e che racconta una storia immergendola in un immaginario popolare con il quale tutti hanno fatto i conti, in un modo o nell’altro. Perché quando arriva un personaggio secondario chiamato Sylvester Stallone (interpretato benissimo da Morgan Spector), lo schermo si infiamma sulle note della musica immortale di Bill Conti e gli animi si sciolgono. L’attore italoamericano che si è ispirato a Wepner per Rocky Balboa lo vorrebbe ingaggiare personalmente per Rocky II con un ruolo scritto su misura per lui, ma gli eccessi e la droga ne stanno già distruggendo la credibilità e la professionalità. E ancora, anni dopo, mentre il protagonista sta scontando la pena in carcere, Stallone lo vorrebbe nuovamente per Sorvegliato speciale, ma stavolta sono l’umiltà e l’amor proprio ad avere la meglio. Rimarrà un ultimo barlume di vita e di orgoglio, ma soprattutto di consapevolezza dei propri limiti, in una polaroid scattata davanti a un mesto Planet Hollywood, accanto alla statua del pugile che lui ha ispirato senza che il resto del mondo se ne accorgesse. La dimensione epica del personaggio trova così la sua affermazione più totale, sottovoce e senza troppo clamore, all’insegna dell’umiltà di chi sa di aver bruciato buona parte delle opportunità di una vita intera.

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