Venezia 80. Rompere la narrazione dominante. Intervista esclusiva con Julia Fuhr Mann

Regista di “Life is not a competition…but I’m winning” e attrice hanno parlato della rottura con la narrazione sportiva dominante, di cinema queer e di una Storia che si frammenta in storie – SIC

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Da sempre, nello sport il corpo umano sfida e supera i suoi limiti. Life is not a competition… but I’m winning collega questo assunto alla teoria queer. Viene così ripercorsa, smontata e rimontata la narrativa sportiva, attraverso storie di atleti di ieri e di oggi che superano i limiti del tempo e della sofferenza individuale. Voci e forme diversissime convivono e dialogano tra di loro, innestano personaggi contemporanei su materiali d’archivio, creano narrazioni alternative in un film-manifesto che non si accomoda negli steccati del genere documentario classico. Ecco, quindi, una conversazione con la regista Julia Fuhr Mann e una delle protagoniste, Annet Negesa, più volte campione di atletica leggera in Uganda con una carriera rovinata da un intervento imposto per limitare i suoi naturali livelli di testosterone.

Qual era il tuo rapporto con lo sport prima di cominciare il film?

Julia Fuhr Mann: Pratico qualche sport, ma in realtà seguo molto di più lo sport come spettacolo. Lo amo e allo stesso tempo odio moltissime sue dinamiche, per esempio la struttura di genere che promuove, e ho provato a includere questo sentimento ambiguo nel film.

 

Lo sguardo col quale vengono raccontati gli sport è tutt’altro che neutrale. Nel film questo linguaggio viene analizzato, riscritto, affiancato da altre prospettive. Come hai lavorato sull’estetica sportiva?

JFM: Abbiamo utilizzato arene legate a grandi eventi sportivi, come per esempio l’Olympiastadium di Berlino, per i nostri atleti queer perché penso che non sia una buona soluzione isolarsi, dire, “No grazie, non siamo interessati” e fare semplicemente le nostre cose. Vogliamo essere presenti, vogliamo partecipare ed esserci anche sui grandi palcoscenici.

Annet Negesa: Sì, vogliamo anche arrivare a più persone possibili.

JFM: Quindi, volevamo avere delle scene nelle quali i personaggi hanno grandi palchi, grandi emozioni, grandi musiche e momenti. Volevamo, però, anche rompere la narrazione dominante, esplorarne le crepe e i margini, oltre che mostrare come queste grandi emozioni vengono costruite.

 

Il film, come suggerisce il titolo, non si concentra tanto sul conflitto quanto sul senso di comunità, sulle connessioni che permettono di raggiungere l’obiettivo. Com’è stato il lavoro sul set e che connessioni ha creato?

AN: È stato incredibile incontrare persone con le quali si condividono così tanti sentimenti. Nessuno chiedeva all’altro di raccontare la propria storia, non c’erano conversazioni grandi e profonde, ma eravamo tutte sulla stessa linea.

JFM: Abbiamo condiviso del tempo insieme a Berlino. Lo sport e la queerness sono stati sicuramente un punto forte di connessione. Questo senso di appartenere a uno stesso gruppo è stato qualcosa di molto importante per il film, qualcosa di molto più forte delle violenze subite dal singolo individuo.

Nel tuo lavoro è importante la rete, visto che fai parte di diversi collettivi.

JFM: Anche se il collettivo non è stato direttamente coinvolto, ci sono stati comunque continui scambi di pensieri su come il cinema queer può raccontare e mostrare in maniera diversa rispetto al cinema mainstream. Far parte di un qualcosa di più grande in ogni caso aiuta a non sentirsi soli.

 

Il film si muove tra due grandi linee del cinema Queer, una più diretta e programmatica, una che lavora più sull’atmosfera. Quali sono i tuoi riferimenti?

JFM: Lizzie Borden è un riferimento per tutti e abbiamo anche inserito una citazione in suo omaggio. L’ispirazione più grande proviene, comunque, da Barbara Hammer, la cineasta femminista scomparsa recentemente. Apprezzo molto il suo lavoro sul corpo e sui diversi modi di rappresentarlo. Credo che il suo sguardo riesca sempre a essere rispettoso, a essere vicino ai suoi soggetti senza mai penetrarli contro il loro volere.

 

Come hai trovato le storie che hai raccontato attraverso il materiale d’archivio?

JFM: Non le conoscevo prima del processo di studio preliminare al film ed è stato difficilissimo ricostruirle. La Commissione Olimpica guadagna milioni con l’acquisizione dei diritti del materiale video. Metà del nostro budget ci è servito solo per la prima scena d’archivio del film, pagando praticamente 10 000 dollari al minuto.

 

Hai pensato fin dall’inizio a innestare materiale girato oggi su immagini d’archivio?

JFM: Sì, perché non mi piace che spesso il materiale d’archivio viene trattato semplicemente come la storia oggettiva. Volevo far capire come non fosse così e che dipende sempre dallo sguardo e da come si vedono le cose.

Nel film la Storia scompare per lasciare spazio alle storie. Pensi che il digitale e i nuovi strumenti tecnologici possano aiutare questo processo?

JFM: Con Annet abbiamo girato con il green screen per una scena in super slow motion.

AN: Sì, ero su un tapis roulant. Non ho corso come corro di solito, ma con dei movimenti il più precisi possibili, così che fossero visibili nel migliore dei modi.

JFM: Pensavamo potesse essere una buona metafora per mostrare come il suo corpo diventa sempre più lento a causa dell’operazione a cui è obbligata a sottoporsi. Il digitale è una possibilità di staccarsi dalla solita rappresentazione delle cose. Non mi piace mostrare solamente la realtà per com’è.

 

Come credi che stia cambiando la situazione degli sportivi queer?

AN: Non ti mentirò, non sta cambiando molto per ora. Stiamo costruendo qualcosa, a piccoli passi. La strada è ancora lunga, ma è certo che in futuro migliorerà, l’importante è non mollare mai.

 

Che ne pensi della narrazione mainstream del mondo queer? A volte sembra normalizzare i punti più radicali della narrazione queer.

JFM: Non mi piace. Anzitutto, perché non mi piacciono le storie “normali”, mi piacciono storie strane, frammentate. Non mi interessano racconti lineari o a effetto, con protagonisti che sviluppano la loro identità e poi è tutto a posto. Preferisco narrare la circolarità, la ricerca continua di un’identità che non è mai fissata. Con questo non credo che un film debba essere ermetico, iper-intellettuale e artefatto, ma penso sia molto importante differenziarsi. Durante la scuola di cinema mi sentivo distaccata da chi mi era attorno: non conoscevo i film mainstream, non conoscevo i nomi degli attori. Poi ho capito che conoscevo altro, ho riconosciuto che non c’era nulla di male a non far parte di tutto ciò, a non adagiarsi.

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