#Venezia72 – Heart of a Dog, di Laurie Anderson

Il linguaggio della Anderson, in fondo, è da un’altra parte. Nella parola e nel suono prima che nell’immagine. Nello sforzo di arrivare alla mente e al cuore senza dover passare prima dagli occhi

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C’è tanto nel primo lungometraggio della Anderson, abituata magari più a ragionare sulla dimensione concettuale e artistica dell’immagine, che su quella immediatamente narrativa. Eppure ama definirsi innanzitutto una narratrice di storie… E in effetti, di storie ce ne sono molte in Heart of a Dog, quella del cane Lolabelle, il rat terrier che l’ha accompagnata nell’ultimo decennio, quella della madre morente e del loro rapporto difficile, l’incidente alla schiena che l’ha costretta in ospedale per mesi. Ma si tratta di storie che passano attraverso la parola, la voce bellissima della Anderson, piuttosto che attraverso le immagini, ripescate da vecchi Super8, da filmini privati e materiali di repertorio, circuiti di sorveglianza, ispirazioni estemporanee. Immagini animate, rimanipolate, graffiate, truccate, come se fossero i resti di un enorme archivio di una memoria da ricostruire, tutto sospeso tra la concretezza del vissuto e l’invenzione fantastica, tra la pressione dei sentimenti e la necessità dello scarto e della distanza. Quasi come se la visione costituisse un supporto, qualcosa su cui poggia la riflessione (o la confessione), che magari la alimenta, ma senza mai farsi la carne concreta del discorso. Un pretesto… O una chiosa, un accompagnamento, una stampella, un’assicurazione. Il linguaggio della Anderson, in fondo, è da un’altra parte, quindi in un altro mondo. Nell’elaborazione di un’idea e di un lutto, mille lutti, attraverso lo sforzo di una prosa poetica che tocca mente e cuore, senza dover necessariamente passare prima dagli occhi.

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heart of a dogSì, c’è tanto in Heart of a Dog: l’11 settembre, la paura e le ossessioni del controllo, c’è il riferimento letterario a David Foster Wallace che parla di amori e fantasmi, e il riferimento filosofico, da Kierkgaard a Wittgenstein. E ovviamente c’è la questione fondamentale, quella della perdita, della separazione e della morte. La Anderson fa appello al buddhismo e al Libro tibetano dei morti. Parla degli esercizi di meditazione e del Bardo, cioè quel momento di passaggio tra la morte e la reincarnazione, una sorta di dimensione sospesa che dura 49 giorni, in cui la coscienza del defunto, staccatasi dal corpo, deve in qualche modo confrontarsi con tutti i legami della sua vita passata e liberarsene, un luogo di esperienze e allucinazioni che ancora parlano il linguaggio dell’illusione. È tutto un attraversamento. E la Anderson sembra correre troppo in fretta, si avvicina a noi, per allontanarsi un attimo dopo. Quasi fosse innanzitutto la sua anima, già avvertita sulla soglia, a doversi liberare dai legami.

 

Sì, c’è tanto. Anzi, c’è talmente tanto da risultare a tratti “troppo”, come se una specie di sovrastruttura fosse calata dall’alto a soffocare la visione. A volte si fa fatica. Ma a volte dal peso emergono dei momenti splendidi, come quello in cui la Anderson parla di Gordon Matta-Clark, l’artista che squarciava i palazzi, per raccontare forse i suoi drammi e le sue tragiche ferite. La sua morte fu un “evento sociale”, un ultimo istante di condivisone, con al lato due monaci tibetani ad accompagnarlo, ad urlargli nelle orecchie perché l’udito è l’ultimo senso a spegnersi. Il martello del timpano continua a vibrare… e quindi parole e musica resistono ben oltre l’immagine. Sarà per questo che nel “troppo” della Anderson manca la storia che tutti avrebbero voluto ascoltare/vedere. Quella di Lou, che appare solo a un tratto, mentre l’inquadratura si perde tra le orme sulla spiaggia e le onde del mare. E nel finale in cui lo vediamo abbracciato a Lolabelle. È lui il fantasma più enorme in questo Bardo infinito. È lui che aleggia dappertutto. E se l’immagine è fuggevole, la sua voce che canta Turning Time Around vibra ancora.

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