#Venezia72 – Montanha, di João Salaviza

Famiglie precarie e giovani ribelli per l’esordio alla regia di João Salaviza. Nella Settimana della Critica

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Terzo appuntamento per la Settimana della Critica che presenta l’esordio al lungometraggio di João Salaviza, regista premiato con la Palma d’Oro a Cannes e con l’Orso d’Oro a Berlino per i cortometraggi Arena e Rafa.

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Alla base di questa Montagna metaforica che dà il titolo al film si trova David, un ragazzo di quattordici anni che trascorre l’estate a Lisbona in compagnia dei suoi amici. Con una madre spesso assente, un nonno in ospedale e una sorellina a cui badare, David è costretto a crescere in fretta, ad arrampicarsi fino in cima e a assumere il controllo della vetta nonostante il suo fisico non sia preparato alla sfida.

Famiglie precarie e giovani ribelli pulsano in un’abbacinante città che ne mette in risalto le contraddizioni. I tre adolescenti protagonisti della storia sono in fondo dei freaks, degli alienati, che vagabondano senza meta e senza motivo apparente in attesa che qualcosa accada. Una quotidianità transitoria prende il sopravvento sulle loro vite, sui loro corpi, su quei volti scuri avvolti nella notte che trasudano tristezza e al tempo stesso bisogno di amore.

Il film mette in scena il cambiamento (in)visibile che avviene su David, la lotta interna che annulla la sua indole spensierata trascinandolo alla deriva di una consapevolezza rinnegata, che la morte, deus ex machina per eccellenza, gli farà accettare. Fuori, non succede nulla; le giornate si ripetono con un ritmo che azzera il tempo: feste in discoteca, giri su moto rubate, tenere effusioni scambiate nella penombra del letto o di un divano. La narrazione procede lenta, dilatata; le inquadrature sono statiche, i silenzi prolungati. Il regista lavora di sottrazione, abbandonandosi a un flusso indistinto di sensazioni che tanto deve al cinema classico americano (una delle fonti di ispirazione è proprio il Dean di Gioventù bruciata).

Racconto di formazione, dunque, ma anche, a un livello meno evidente, esplorazione dei territori dell’anima attraverso i quartieri di una Lisbona periferica, abbandonata, per trovare un approdo che forse non esiste. E allora si cerca rifugio nel cuore, in una solenne promessa d’amore che ha in sé il germe della trasformazione: la parola diventa foriera di solitudine. A poco a poco tutto scompare; la voce cessa di parlare e al suo posto solo un profondo respiro.

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