#Venezia72 – Spotlight, di Tom McCarthy

Fuori concorso ecco un grande esempio di cinema civile formidabile per la solidità con cui narra la forza dell’informazione e interviene nel racconto dei fatti a partire dal basso

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Nel solco tracciato da Lumet, Pakula e soprattutto Redford ecco un grande esempio di cinema civile, molto liberal, formidabile per la solidità con cui narra la forza etica e drammaturgica dell’informazione, con cui fa vivere i personaggi negli ambienti e interviene nel racconto dei fatti a partire dal basso. L’indagine di questo film giornalistico è quella celebre e già entrata nella storia dell’informazione americana sullo scandalo dei preti pedofili che a partire dal 2002 portò a un terremoto all’interno della Chiesa cattolica, nonché alle dimissioni dell’arcivescovo di Boston Bernard Francis Law. Ben 89 furono i sacerdoti che il Boston Globe, dopo ricerche durate quasi un anno, accusò di abusi su minori. Gran parte del merito fu però di una redazione interna al giornale la Spotlight appunto, composta da un team di investigatori d’assalto che riuscirono a scardinare il muro di ipocrisia e di silenzio eretto dalle istituzioni e dalla comunità bostoniana. Sono loro i principali protagonisti del film e hanno le facce incredibilmente “vere” di un gruppo di grandi attori affiatatissimo e perfettamente in parte: Michael Keaton, Mark Ruffalo, Rachel McAdams, Brian D’Arcy James e ancora il sommesso ma determinato direttore di origine ebraica Liev Schreiber e l’avvocato di origini armene Stanley Tucci.

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Grazie alla profonda eco che ebbero gli articoli pubblicati, nel 2003 il giornale vinse il premio Pulitzer ma il film di McCarthy si ferma prima, ovvero al primo articolo del gennaio 2002. Il punto di partenza di un effetto domino che poi viene lasciato in fuori campo, proprio perchè il focus del film è nelle riunioni redazionali, nelle telefonate, negli incontri, nell’analisi di documenti omessi o scomparsi. E McCarthy è attentissimo nel calibrare le sfumature psicologiche dei personaggi e nel descrivere tutta la fatica del mestiere e della cronaca. Accumula indizi, nomi, testimonianze, senza concedere mai nulla a una facile retorica spettacolare, ma anche tenendo sempre presente il nocciolo della questione: la ricerca della verità e della misura con cui raccontarla attraverso il cinema. Costruisce così un film parlatissimo ma mai noioso, fatto di inquadrature strette sui volti degli attori e sulla semplice purezza del campo controcampo, dove ogni scena aggiunge sempre qualcosa in più al puzzle complessivo dell’indagine, alla storia da raccontare. Senza mai preoccuparsi della bella immagine, ma sempre o soltanto di quella “giusta”, trasparente.

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