#Venezia73 – Le ultime cose, di Irene Dionisio

Uno scarto evidente tra la scrittura e la realizzazione, dove forse c’era bisogno di più tempo o di tagli più drastici per un film che si è (auto)recluso da solo. Alla Settimana della Critica

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I rumori di Torino. Le strade grigie, le ombre che diventano un’altra vita. Quasi parallela. C’è uno stretto legame tra i personaggi e gli oggetti. Come se ogni separazione li privi ogni volta di qualche cosa.

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Più storie si intrecciano dentro Le ultime cose, quasi un titolo profeticamente terminale, opera prima di Irene Dionisio che aveva già realizzato videoinstallazioni e documentari, come Sponde. Nel sicuro sole del nord (2015) e La fabbrica è piena. Tragicommedia in otto atti (2011). Il banco dei pegni diventa il centro nevralgico dove si intrecciano tre storie. Sandra, giovane trans, decide di vendere la sua pelliccia per dimenticare il passato. La sua esistenza si incrocia con quella di Stefano, un ragazzo che ha appena iniziato a lavorare nel posto. Infine c’è Michele, un ex-facchino che ha bisogno di un prestito ma lo chiede alla persona sbagliata.

C’è una tensione nascosta e malata in Le ultime cose, soprattutto a livello di scrittura, ma la Dionisio la manifesta attraverso una claustrofobia esibita, guardando anche nelle zone di Ciprì (il banco dei pegni come l’ufficio postale di È stato il figlio, che condivide con questo film la presenza di Fabrizio Falco) e quella chirurgia di una sorta di noir malato che forse rimanda al modello di Gomorra. La caratterizzazione eccessiva diventa ingombrante e si vede anche nella prova di uno degli attori italiani più bravi, Roberto De Francesco, che qui invece diventa quasi una specie di corpo-marionetta o anche nella ripetizione di una gestualità e di giochi di sguardi che diventano ripetitivi. L’implosione iniziale si mantiene per tutto il film. Senza che venga mai liberata. Con derive quasi compiaciute tra videoinstallazioni e romanzo hard boiled con lo specchio e lo sfondo del ventilatore. Nel desiderio di una vita diversa che resta sempre lì sulla superficie come si vede nei personaggi di Michele e Sandra, scritti anche loro molto meglio di come siano stati invece raccontati dopo. Forse c’era bisogno di più tempo per entrare nel cuore delle tre storie. Oppure la ricerca dei tempi morti avevano bisogno di qualche taglio più netto. L’impressione è quella di un esordio che si è (auto)recluso da solo, che aveva degli sbocchi e delle soluzioni dove poi non c’è stato il necessario coraggio per seguirli.

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