#VENEZIA73 – Miljeong (The Age of Shadows), di Kim Jee-woon

Due ore e venti sono più che sufficienti a Kim per costruire un grande spettacolo in 2formato esportazione, denso di eventi e personaggi, Fuori Concorso,

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La trasferta americana di Kim Jee-woon con The Last Stand continua a far sentire i propri effetti anche con questo Miljeong (The Age of Shadows), prima produzione finanziata e distribuita in lingua coreana sotto l’egida Warner Bros. Un percorso tutto sommato coerente da parte del regista, da sempre considerato il più occidentale tra i suoi connazionali, abilissimo nel sapersi orientare all’interno dei generi anche a costo di mettere in secondo piano una dimensione autoriale più volte suggerita ma mai portata avanti fino in fondo.

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Questa volta Kim (anche sceneggiatore) decide di affrontare di petto la Storia del suo paese in uno dei periodi più drammaticamente controversi, quello dell’annessione all’Impero giapponese e della conseguente formazione di un esercito di resistenza, fondato a Shangai nel 1919 e che sarebbe durato fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, con la dichiarazione di Indipendenza e la divisione tra Nord e Sud. Liberamente ispirato ai sanguinosi attentati del 1932 a Shangai e a Tokyo, il film narra dei tentativi da parte di Lee Jung-Chool, commissario di polizia coreano al servizio dell’esercito giapponese, per infiltrarsi all’interno dell’organizzazione di resistenza guidata da Kim Woo-Jin e Kim Sang Ho, e del suo doppiogiochismo una volta presa a cuore la causa coreana.

 

Due ore e venti sono più che sufficienti a Kim per costruire un grande spettacolo in

2formato esportazione, denso di eventi e personaggi in grado di tenere costantemente alta l’attenzione dello spettatore: non c’è mai vera epica (non nel senso più vero del termine, almeno), ma comunque la capacità di costruire un cinema genuinamente coinvolgente, grazie soprattutto all’innegabile talento visivo di un regista che non si vergogna di credere ancora nella potenza della scena madre (tutta la lunga sequenza del viaggio notturno in treno, per esempio, straordinaria per tensione e ritmo) e nel fascino misterioso e apparentemente ancora tutto da esplorare (nel 2016!) dei topoi del genere: appostamenti, interrogatori, inseguimenti e sparatorie, senza occultare le proprie fonti e senza la pretesa dell’autorialità a tutti i costi. Un’opera che guarda apertamente ai modelli occidentali, De Palma soprattutto, dalla scena in stazione che sembra uscire direttamente da The Untouchables all’utilizzo del Bolero di Ravel come in Femme Fatale, ma che allo stesso tempo riesce a trovare un suo equilibrio interno tra esigenze spettacolari e una più intima dimensione del racconto e dei suoi personaggi. Quello che una volta si chiamava filmone, quindi perfetto per il fuori concorso veneziano.

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