#Venezia73 – Monte, di Amir Naderi

Monte è cinema (delle origini) che fa dell’assenza della parola la più estrema delle Sound Barrier, creando un’esperienza sinestetica di rara potenza. Un film immenso. Fuori Concorso

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Don’t give up, sussurrava Amir Naderi al cinema qualche anno fa. Del resto non ti arrendere (ci) ha sempre urlato Naderi in ogni latitudine: dal corridore iraniano alla maratoneta newyorkese, dal cinefilo giapponese a quest’ultimo padre di famiglia italiano… tutti a lottare contro il proprio monte per rivedere il sole oltre la morte, oltre la civiltà, oltre le censure, oltre le barriere, oltretutto dove splende il cinema come meraviglioso e incontaminato dispositivo-di-libertà. Dont’ give up again: Amir Naderi firma l’ennesimo capolavoro della sua preziosissima carriera. Monte è un film di assoluta e sacrosanta semplicità: siamo nel Medioevo, in Italia, sui monti del Friuli, dove una famiglia ha appena seppellito la propria figlia con dignitoso dolore. Il villaggio è ormai popolato da tombe e ricordi, i superstiti se ne vanno, la natura inesorabile fa il suo corso, ma Agostino (Andrea Sartoretti) non si arrende. Deve restare lassù e adattarsi al luogo, per renderlo umano e comprensivo, sfidando la natura (le condizioni di vita ormai impossibli) e la cultura (la sua lontananza dalla religione lo rende “eretico” agli occhi dei compaesani). L’uomo tenta disperatamente di creare un ponte, cercando di “vendere” i propri prodotti e “scendere” in paese, ossia cercando un contatto sentimentale con il mondo che continua però a rifiutarlo… a questo punto non resta che accettare il proprio destino: l’unico vero avversario degno di questa titanica lotta per la sopravvivenza rimane il monte. (Ab)batterlo per salvare la casa e rivedere la luce.

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Monte è cinema (delle origini) che fa dell’assenza prolungata della parola la più estrema delle Sound Barrier, creando un’esperienza sinestetica di rara potenza, spogliata di ogni orpello narrativo o ideologico per isolare solo i conflitti primi dell’esistenza. Ed eccolo l’ennesimo paradosso naderiano: una totale astrazione visiva ancorata però al corpo e al cuore di un uomo in lotta. Una pioggia di immagini che aprono abissi di memoria nella loro aptica immanenza: dalle origini del mondo in Kubrick (i personaggi diventano “primati” in questa Odissea nello Spazio rovesciata, vecchia passione naderiana) alle fate morgane di Herzog (l’estasi da raggiungere tra le inquadrature come unica libertà che val la pena ancora di inseguire). Monte diventa il film summa che va a sostituire il sogno cinematografico di un’intera vita: quel vecchio “progetto sulla Luna” (ma qui siamo veramente sulla Terra? Sarà forse questo il film lunare di Naderi?).

Eccoci al cinema, allora. Dopo una prima parte volutamente frenata – perchè disperatamente ancorata a tracce spaziali certe e linee narrative da ricercare in uno sforzo stilistico dal rigore (neo)pasoliniano -, arriva inesorabilmente l’accettazione del destino (dell’immagine): Agostino spintona Monte verso il monte e lo costringe all’ennesima tempesta di elementi che si affastellano e si rincorrono come i colpi di martello sferrati sulla roccia. Colpi continui. Inesorabili. Lunghi anni. Suo figlio adolescente scappa e torna adulto, sua moglie invecchia e resiste, le stagioni passano e poi ritornano, ma la montagna si scalfisce appena: il film diventa così una liminale sinfonia di inquadrature che scolpiscono lo schermo aprendo crepe di reale a ogni gemito scomposto di dolore, rimbalzando sulle barriere dei nostri sentimenti e sbriciolandole sino a restare nudi con noi stessi. Increduli e soli davanti alla vita e ai suoi conflitti primi.

Questa meravigliosa ultima mezz’ora di Monte è la sfida definitiva del corridore ingabbiato dallo schermo, la vittoria definitiva dell’acqua-vento-sabbia insinuati ormai in ogni singolo cut di montaggio, senza più una lingua o un linguaggio (ben prima l’ABC), senza più numeri da interpretare (a Manhattan) e senza più tesori da ritrovare (a Vegas). L’immagine rinuncia a ogni “significato” rigenerandosi in un gesto filmico fine a se stesso e immensamente umano,  ossia il gesto ciclico di Agostino: ossessivo, rabbioso, onesto, commovente, sincero e sublime nella sua inutilità. Proprio come il cinema. Ecco allora: Naderi scala per l’ennesima volta la sua privata montagna di (r)esistenza, arrivando a liberare la luce di un cinema divenuto definitivamente nostro.

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