#Venezia73 – Paradise, di Andrei Konchalovsky

Il paradosso di Paradise è che potrebbe essere un film interessante su come leggere la Storia, ma non su come raccontarla. In Concorso.

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La prima questione che emerge è formale e quindi morale. È possibile raccontare l’Olocausto dopo l’esperienza sensoriale e controversa de Il figlio di Saul di Laszlo Nemes? Il paragone potrebbe essere forzato ma in un certo modo racconta bene lo straniamento provato davanti alle inquadrature vicine/lontane con cui quest’ultimo film di Andrei Konchalovsky prova a raccontare l’orrore da dentro, a camera fissa, senza spettacolarismi ma con un linguaggio che appare improvvisamente vecchio di due, tre generazioni. Un linguaggio forse ancora giusto. Corretto.  Ma francamente piatto. Quasi anestetizzato. È una delle impasse più evidenti di un film strano, faticoso e in parte deludente, che ci ha un po’ messo in crisi. Proviamo a ragionarci.

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Konchalovsky costruisce tre diversi punti di vista sulla Storia e sulla Shoa. Il commissario francese Jules, collaborazionista durante la Repubblica di Vicky. Olga, la prigioniera russa andata contro le leggi razziali per aver nascosto due bambini ebrei ed essere entrata a far parte della resistenza francese. Il membro delle SS Helmut, figlio della nobiltà aristocratica, tenacemente fiducioso nel Paradiso di una nuova era germanica.

paradiseBianco e nero in 4:3, assenza quasi totale di colonna sonora, con pochi inserti provenienti da radio, grammofoni ed echi blasettiani sulle note di Parlami d’amore Mariù. Siano nel 1942 e Konchalovsky con la consueta austerità che contraddistingue il suo cinema più recente sembra quasi ripartire dall’epicentro storico e ideologico su cui prendeva forma Francofonia di Aleksandr Sokurov: nel cuore della più grande tragedia umana vissuta dall’Europa c’è ancora spazio per un’ultima comunicazione tra le parti? Per un punto d’incontro sentimentale, artistico e morale attraverso il quale credere ancora nel Paradiso dell’uomo? Per fare del bene ci vuole sempre uno sforzo in più confessa Olga nell’epilogo di un’opera che propende in ultima analisi soprattutto nel libero arbitrio, in quella differenza dell’atto che è necessaria per rivoltarsi alle ideologie e alle apocalissi della Storia.

Paradise è però soprattutto un film di fantasmi – anche se non è affatto un film onirico – come quelli che si aggirano nel bosco e sembrano tormentare il nazista. Jules, Olga ed Helmut parlano infatti allo spettatore per quasi tutto il film in un altrove dopo la morte, che ha tutta l’aria di essere l’asfissiante anticamera di un tribunale. Raccontano non tanto gli snodi drammaturgici del loro strano triangolo che inizia a Parigi e si conclude nei campi di sterminio, quanto le loro confessioni, i condizionamenti e le certezze continuamente inceppate da un vecchio proiettore, che di magico non ha proprio nulla, ma anzi funziona come macchina documentaria, mezzo “pesante” attraverso cui costringere gli uomini a mettersi a nudo di fronte alle loro responsabilità. Ma la sensazione è che alla fine le idee e le parole siano inutili, ingolfano la memoria, la ricostruzione, il punto di vista. In Paradise le voci del resto provengono dal loro tempo, scorrono senza pentimenti, correndo a tratti persino il rischio di essere autoassolutorie. “Il problema è chi fa del male e continua a pensare di agire nel giusto. Mi vengono in mente Savonarola, Giovanna d’Arco, la seconda guerra mondiale, i bombardamenti in Iran, Serbia, Libia. Tutto questo non ha fine perché chi lo fa pensa di essere nel giusto.” chiarisce il regista de Il proiezionista. Nonostante la dedica finale ai combattenti russi che nella Seconda guerra hanno nascosto e salvato i bambini degli ebrei, Konchalovsky vede pessimisticamente l’uomo come vittima inerte del determinismo storico : “Se fossi nato in Russia sarei stato un bolscevico” dice Helmut a Olga facendo un po’ il verso a quanto scriveva Kurt Vonnegut in Madre notte (“sono americano ma se in quello stesso anno fossi nato in Germania sarei stato un nazista”). Il paradosso di Paradise è che potrebbe essere un film interessante su come leggere la Storia, ma non su come raccontarla. Konchalovsky stavolta non sembra credere nelle immagini, ma nel discorso delle immagini.

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