#Venezia73 – Spira Mirabilis, di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti

Sembra quasi che tra le traiettorie di un lavoro summa, i due registi si siano imbattuti nella loro infinita fabbrica personale, nella sfida di un’opera destinata a rimanere sempre aperta. In concorso

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La “spira mirabilis” è una spirale logaritmica il cui il raggio cresce per rotazione secondo una progressione geometrica, mentre dall’altro lato la curva si avvolge intorno al polo, senza mai raggiungerlo. Punto asintotico, intorno al quale si ritrovano infinite spirali identiche, sempre più minuscole. La curva mantiene un angolo costante tra il raggio e il vettore tangenziale ed ha connessioni con la sequenza di Fibonacci e il rapporto aureo. È già un frattale, volendo, cioè un oggetto geometrico che si ripete nella sua forma allo stesso modo su scale diverse. Descritta da Descartes, indagata da Torricelli e studiata a fondo da Jakob Bernoulli, che ne diede la definizione di mirabilis, la spirale logaritmica si ritrova in natura in più forme ed espressioni. Dalle conchiglie di alcuni molluschi al volo degli insetti e dei falchi, fino ad arrivare alla forma delle galassie. È dunque una figura comune ad aspetti più disparati della realtà e che sembra contenere in sé, nonostante la sua “origine naturale”, già una valenza spirituale. Come aveva intuito lo stesso Bernoulli, che volle incisa sulla sua tomba proprio una spirale con la frase eadem mutata, resurgo, “sebbena diversa, rinasco ugualmente” (che poi sulla lapide abbiano disegnato una spirale archimedea, che segue non una progressione geometrica, ma una distanza fissa, con conseguente “deformazione” della curva, è un altro discorso…).

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spira mirabilis 3È proprio in nome della spirale meravigliosa che Massimo D’Anolfi e Martina Parenti danno “forma”, letteralmente, al loro ultimo lavoro: un ricerca di anni che già ha dato vita a un primo movimento, L’infinita fabbrica del Duomo, nella prospettiva di una potenziale quadrilogia basata sui quattro elementi. Qui tutto si riunisce in un discorso unico e complessivo, che raccoglie frammenti del film precedente e allarga lo spettro sul resto, con le riprese effettuate in giro per il mondo e il materiale raccolto negli archivi più disparati. Quattro elementi, dunque. La terra, con i marmi del Duomo di Milano, appunto, e il continuo lavoro di manutenzione, restauro, ri-costruzione da parte degli operai, artigiani, marmisti della Veneranda Fabbrica del Duomo. Il fuoco, incarnato nella spiritualità e nell’orgoglio invincibile degli indiani d’America, di ciò che resta del popolo Lakota dopo il massacro di Wounded Knee del 1890 e la dura repressione della rivolta del 1973. L’aria, che esemplifica il lavoro degli svizzeri Felix Rohner e Sabina Schärer, inventori e costruttori di strumenti musicali ispirati alla tradizione degli steel pan. Parliamo dell’hang e del gubal, strumenti di metallo, alluminio, ferro, vuoti all’interno, che sfruttano l’aria e la risonanza che si produce nella cavità (risonanza di Helmholtz). A metà tra l’artigianato e l’arte, sono prodotti unici, irripetibili, “personali”, ogni hang è diverso dall’altro, ogni punto toccato produce sonorità differenti. E poi c’è l’acqua, il mondo d’elezione di Shin Kubota, scienziato dell’Università di Kyoto, da anni dedito a uno studio solitario sulla turrotopsis, la miracolosa medusa immortale, un minuscolo essere capace di ringiovanire le sue cellule potenzialmente all’infinito e tornare allo stadio di polipo sessualmente immaturo. Il segreto della vita eterna, dunque? Chissà… le canzoni di Shin Kubota prefigurano il salto definitivo, rinviato soltanto dalla nostra impreparazione, scientifica, tecnica, morale… Ma resta il fatto che l’ultimo movimento della spirale è l’etere, l’elemento che avvolge e connette tutti gli altri, con i ragionamenti e i paradossi labirintici di Borges e de L’Immortale, letto da Marina Vlady.

 

spira mirabilis 2Ecco la chiave. Già pronta per chi pensa che quella affrontata da D’Anolfi e Parenti sia un’altra materia oscura. Anzi, l’idea è già nel titolo, come già ci siamo affannati a spiegare, mancando il bersaglio. È nelle curve della spira, differenti per misura eppur di forma sempre uguale. Cogliere la ripetizione nella varietà delle cose e delle vite… Che sia il coraggio di un popolo che prova a “narrare” ancora la propria anima per resistere all’estinzione o la fabbrica infinita di un’opera, una costruzione che sogna di connettere cielo e terra, che sia la ricerca di quel suono unico nella perfezione di uno strumento irriproducibile o la dedizione di uno studioso nel perseguire la propria vocazione, il punto è sempre quello. Raccontare quella tensione all’assoluto che c’è oltre il limite, quell’affanno dell’eternità, che è la nostra fatica quotidiana, la nostra ossessione mirabile e senza fine. Ma è esso stesso un punto asintotico, di cui non si vede meta. Un po’ come accade al film, che sembra girare intorno al suo nucleo in curve sempre più strette, in parabole di definizione che si fanno via via più minute e precise, e pur tuttavia mantiene sempre uno scarto, una distanza approssimativa dal centro, all’interno della quale potrebbero scorrere altre cento, mille immagini, altri cento, mille film. Sembra quasi che nello svolgere e riavvolgere le traiettorie di un lavoro summa, Massimo D’Anolfi e Martina Partenti si siano imbattuti nella loro infinita fabbrica personale, nella sfida affascinante e pericolosissima di un’opera destinata a rimanere comunque aperta, passibile di più e più riprese, interventi, ritorni. Del resto, seguendo la loro passione per l’archivio, nell’attimo stesso in cui reinseriscono nel flusso i pezzi de L’infinita fabbrica del Duomo, i due registi sono già arrivati alla vertigine di considerare il proprio cinema, quello già fatto e concluso, come un archivio da riutilizzare e rimontare. Un cantiere permanente di found footage, in cui entrano, con una naturalezza senza soluzione di continuità, le scene vergini, nuove “fiammanti” e i frammenti alieni, immagini provenienti da un altro spazio tempo e da altri punti di osservazione. Spira Mirabilis sembra così abbracciare, come fosse un’antologia, gran parte delle forme del documentario contemporaneo, passando dallo scavo all’invenzione (c’è differenza?), dal respiro lirico alla registrazione meccanica di un tempo al lavoro – del lavoro (di cui Il gesto delle mani di Clerici resta la punta più radicale e definitiva). Certo, c’è il rischio che nell’eterogeneità dei materiali si perda un vertice di quella triangolazione inseguita da D’Anolfi e Parenti, quella che definisce il documentario (e il cinema in generale) nel rapporto tra autore, realtà e pubblico. È possibile che, nelle volute della spirale, lo spettatore si smarrisca, sbalzato fuori dalle forze centrifughe di una tangente qualsiasi. E D’Anolfi e Parenti sono a tal punto consapevoli di questo rischio che sembrano, in alcuni istanti, fin troppo ansiosi di chiarire, spiegare e far quadrare il cerchio. Quasi dubitassero della capacità delle immagini, dei suoni, dei rapporti stabiliti dal montaggio, di raccontare da sé. Eppure, se solo per un istante si rinunciasse alla logica miope di una “trama”, di un percorso lineare già tracciato e sempre uguale a se stesso, si riconoscerebbe la meraviglia del gioco. Sospesi tra la libertà e l’enorme abisso di un film che potrebbe non finire mai.

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