#Venezia73 – Tarde para la ira, di Raúl Arévalo

Un film senza segni di cedimento strutturale. Tutto funziona, anche troppo, ma nella scelta e nell’adesione agli ambienti c’è una via di fuga dalla scrittura serrata. In Orrizonti

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Ormai il cinema di genere spagnolo è uscito fuori dai confini, sdoganato ai festival e in piena conquista del mercato europeo. Prima l’horror, ovviamente, poi il carcerario ad alta tensione, come Cella 211, e, infine, i thriller cupi e serrati, gli hard boiled, sul tipo de La isla mínima di Alberto Rodríguez. Chissà che un domani non si parlerà di una vera e propria stagione del poliziesco iberico, con i suoi cantori, i suoi volti, i suoi paesaggi… Comunque è proprio da lì, da quel contesto, che arriva Raúl Arévalo, attore dalla carriera ormai affermata, interprete tra l’altro proprio del film di Rodríguez. Per la prima volta si cimenta con la scrittura e la regia e decide di tenersi strettamente legato alle atmosfere e alle coordinate del genere. Tarde para la ira è un film in continua tensione, senza pause narrative o segni di cedimento strutturale. Solido come una costruzione in calcestruzzo e tagliente come una lama. La storia è la più classica delle vendette, seppur orchestrata in un gioco a carte coperte, in una specie di partita condotta sul bluff, sull’abilità nel nascondersi e nell’ingannare l’avversario. La premessa è una rapina in una gioielliera finita male: i rapinatori fuggono a rotta di collo per l’arrivo della polizia, ma l’unico ad essere arrestato è l’autista della banda, Curro, condannato a otto anni di prigione. Ed ecco che la vicenda prende corpo proprio alla viglia del suo rilascio. Nel bar gestito dalla sua fidanzata storica, Ana, si aggira un cliente abituale, José, uomo riservato, timido e silenzioso. È chiaro che è innamorato della donna, senza grandi speranze in apparenza. Ma la perseveranza premia. Eppure, a poco a poco, si scopre che il vero obiettivo di José è un altro.

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Arévalo entra nella sua storia stando addosso ai personaggi, con un’insistenza quasi dardenniana. La scena della rapina, tutta vissuta dall’abitacolo dell’auto di Curro, assomiglia a una dichiarazione di principio. Lo spettacolo è quasi escluso dalla traiettoria chiusa e opprimente del punto di vista. Una specie di poetica di nudo realismo, che prova a scavare dentro le espressioni e le impressioni, e in cui gli atteggiamenti dei corpi e dei volti hanno più valore delle situazioni e delle linee dell’azione. Ma questo pedinamento costante è più un depistaggio, che un’ossessione. Ben presto, quando il plot comincia a mostrare le sue tortuose volute, lo spazio tra la macchina da presa e i personaggi si apre e in questa distanza cominciano a inserirsi e a prendere piede le esigenze narrative del genere. Il punto di svolta è più o meno la scena del primo scontro tra Curro e José. Da quel momento, accompagnato da una musica cupa e martellante, il ritmo prende quota. E dal bar di periferia, l’azione si apre in una specie di road movie polveroso e fatale. Lo sguardo di Arévalo abbandona definitivamente la città, per stare sui percorsi tangenziali, le campagne desolate, i motel sul ciglio delle strade, le cittadine di provincia, i vecchi casolari, gli allevamenti di maiale, le cascine. Salvo poi ritornare al punto di partenza, per portare a compimento l’ultimo atto della tragedia. E, forse, è proprio nella scelta e nell’adesione a questi scenari che Tarde para la ira, riesce a smarcarsi dalla scrittura e dalle sue invenzioni, fin troppo serrate e implacabili. Se gli umori non vengono fuori, se nell’odio muto, glaciale di José e nella disperazione rabbiosa di Curro non ci riconosciamo, resta comunque un’atmosfera definita, netta, pungente. Fatta di polvere e morte.

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