#Venezia73 – The Bad Batch, di Ana Lily Amirpour

Ricco di momenti che riescono a lasciare il segno ma che allo stesso tempo svaniscono via altrettanto rapidamente, senza lasciare nulla dietro di sé. In concorso

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Il bianco e nero contrastato di A Girl Walks Home Alone at Night lascia spazio alla luminosità accecante del deserto ai confini con il Texas, popolato da squallidi freaks figli di un disastro postatomico e da comunità di cannibali guidati dal monolitico Jason “Kahl Drogo” Momoa. Nel mezzo, Samantha, bellezza da top model catapultata lì chissà come, alla quale vengono immediatamente amputati un braccio e una gamba costringendola a vagare in mezzo al nulla come un’eroina alla Mad Max, dapprima in cerca di vendetta nei confronti di chi le ha mutilato il corpo e poi in fuga da una fatiscente comunità guidata dal santone Keanu Reeves (quasi un sosia del comico Andy Kaufman).

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Non è facile cercare di capire fino in fondo il plot di The Bad Batch, bizzarra commistione di horror e fantascienza che Ana Lily Amirpour mette in scena con indubbio talento visionario: ma la glacialità hipster di A Girl Walks Home Alone at Night in qualche modo risuonava già come una sorta di campanello di allarme, o almeno avrebbe dovuto farlo. Trasformata in men che non si dica in Autrice già in possesso di una poetica (?) personale, qui la giovane regista iraniana conferma tutto il proprio gusto per un’estetica raffinata e rarefatta, ricca di momenti che riescono a lasciare il segno ma che allo stesso tempo svaniscono via altrettanto rapidamente, senza lasciare nulla dietro di sé.

Suki Waterhouse e Jason Momoa The Bad BatchOvviamente è facile rifiutare un cinema che prima abbraccia il genere (senza lesinare sui dettagli gore) e poi chiede allo spettatore un’attenzione e una capacità di partecipazione fuori dall’ordinario; ma l’impressione è quella di trovarsi dinanzi a un’opera seconda sempre troppo consapevole delle proprie potenzialità ma mai dei propri limiti, autocompiaciuta di una sceneggiatura inutilmente ermetica che utilizza l’espediente della narrazione in medias res (non sappiamo assolutamente nulla del vissuto dei personaggi, né cosa sia accaduto nel mondo per ridurre l’umanità in quello stato) ma poi si ferma sulla superficie delle cose. E ci si tormenta nella ricerca di un significato, senza però riuscire a venirne a capo.

Quasi uno scarto residuo di certa estetica anni Novanta, con tanto della celebre All That She Wants degli svedesi Ace of Base ad accompagnare una sequenza di omicidio stemperandone l’impatto brutale. Ma questi espedienti fanno davvero uno stile? O forse è solamente una scappatoia per lasciare che altri gridino al miracolo, in questo processo di autorializzazione coatta forse neanche così insensata, ma certamente ancora prematura? Nel frattempo, la perplessità rimane.

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