#Venezia73 – The Woman Who Left, di Lav Diaz

Lav Diaz qui fa prosa, più che poesia. Rinuncia ai momenti di contemplazione e folgorazione per interrogarsi sulla struttura e le modalità del racconto. In concorso

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Il punto di partenza, vago, è un racconto di Tolstoj, Dio vede quasi tutto, ma poi aspetta, incentrato su un personaggio, Ivan Dmitrich Aksionov, ingiustamente detenuto in Siberia per 26 anni, durante i quali ritrova la sua fede in Dio, fino a divenire capace del perdono. Lav Diaz cambia le carte in tavola e mette al centro della vicenda una donna, Hortencia, che ha già scontato trent’anni per omicidio. Trent’anni durissimi, in cui però Hortencia è diventata un punto di riferimento per le altre detenute e per i loro figli. Maestra elementare, insegna a leggere, dà lezioni di grammatica e scienze, organizza gruppi di lettura, è lei stessa autrice di racconti. Ha raggiunto un suo equilibrio, insomma. Finché una delle sue compagne, Petra, devastata dal rimorso, non confessa una verità terribile. È stata lei a commettere il delitto e l’ingiusta condanna di Hortencia è stata orchestrata dal suo amante di quegli anni, Rodrigo Trinidad, un personaggio “demoniaco” che ha sempre esercitato il suo potere e la sua influenza senza alcuno scrupolo. Hortencia viene rilasciata. Torna a casa, per rintracciare i suoi figli. E per dar sfogo alla sua sete di vendetta.

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the-woman-who-left2C’è qualcosa che non va. Stiamo dando troppa trama. E siamo solo agli inizi della storia, che poi prende altri risvolti, più o meno inaspettati, comunque svincolati dal riferimento iniziale a Tolstoj. Il fatto è che Ang Babaeng Humayo è davvero il film di Lav Diaz in cui il racconto tiene di più la barra dritta. Fino a tracciare una traiettoria dai contorni nitidi, chiari, precisi. Non che Diaz rinunci alle sue dilatazioni, alle curve di percorso, a smarginare i limiti per connettersi al flusso del tempo, delle parole, delle idee e degli stati d’animo. Ma sembra, stavolta, del tutto disinteressato a smarrirsi in un punto imprecisato della giungla, dell’infinita e intricata potenzialità della realtà di farsi cinema. E seppur dilata i ritmi, non lo fa mai per raggiungere la sospensione, cioè quell’attimo in cui il tempo del racconto si dissolve nella purezza della visione. Qui, semmai, si scava, si lavora per approfondimento, per dare tutta la sostanza e il sangue possibili a quelle figure ideali che di solito abitano il cinema di Diaz, a quelle idee che si agitano, sotto forma di uomini, nel teatro della Storia. Qui, se ancora di idee si tratta (la vendetta, la solitudine, la povertà, il potere), sono finalmente idee incarnate, uomini che hanno una terza dimensione, di cui cogliamo gli intenti, i dubbi, i sentimenti, i motivi delle decisioni e delle azioni. O meglio, non uomini, nel senso gender: perché i personaggi che racconta a pieno Diaz sono Hortencia, ovviamente, e Hollanda, il travestito che si aggira per le strade e le spiagge di Puerto Galera, nell’isola di Mindoro (luogo tra l’altro caro alla comunità gay). Paradossalmente, due persone che si muovono sotto “mentite spoglie”, che quasi rischiano di smarrire la loro identità nella girandola dei falsi nomi, doppi, tripli.

 

Certo tutto ciò non vuol dire che Lav Diaz rinunci alla complessità del suo cinema in nome di un approfondimento psicologico. Nel tessuto della trama entra pur sempre la Storia, sotto forma per lo più di eco, quelle voci degli speaker radiofonici che riportano al 1997, anno “campale” di violenza recrudescente, con le Filippine terrorizzate dal racket dei sequestri che sconvolge la vita delle classi alte della società, con le svolte epocali (Hong Kong che torna alla Cina), con i segni del caos letti nelle morti illustri (Lady Diana, Madre Teresa di Calcutta, oggi santificata per una schizofrenia del caso…). E in controluce, ovviamente, sembra di vedere il presente (a parte i rapimenti di Mindanao, il nome del “cattivo” può far pensare all’attuale presidente delle Filippine, il controverso Rodrigo Duterte?). La lucidità politica è intatta. La capacità di raccontare, anche sullo sfondo, le spaccature sociali e morali di un mondo, di cogliere le storture e gli abbracci mortali dei poteri forti. E la scelta morale di prendere parte, stando sempre sul lato debole, quello sbandato, respinto ai margini. Proprio come Horacia, questa specie di Batman, eroe “oscuro” e tormentato, che si prende cura della sua dark city, il gobbetto venditore di balut, il travestito violentato e picchiato a morte, le famiglie più povere.

 

the-woman-who-left-3Ecco, nel suo contesto urbano, prevalentemente notturno, The Woman Who Left sembra lavorare sulle coordinate del cinema di genere, un revenge movie thriller psicologico. Quasi a sfiorare un’ottica industriale – del resto l’interprete principale Charo Santos è stata per anni presidentessa dell’ABS-CBN Broadcasting Corporation, cioè il gruppo mediatico più importante delle Filippine. Per negarla un secondo dopo. La realtà, in fin dei conti, è che Lav Diaz qui fa prosa, più che poesia. Rinuncia ai momenti di contemplazione e folgorazione per interrogarsi sulla struttura e le modalità del racconto, sulle infinite possibilità di articolazione del discorso narrativo. Del resto Norte, the End of the History era una incredibile variazione dostoevskiana, A Lullaby to the Sorrowful Mystery un infinito gioco combinatorio che faceva convivere figure storiche e personaggi letterari nello scenario mitico della rivoluzione filippina. Ed ecco, ora, un film tutto all’insegna delle storie, quella di riferimento, quelle lette e scritte da Horacia, che gioca con i tempi verbali, quelle raccontate dai personaggi incontrati nelle sue inquiete peregrinazioni notturne. Un saggio definitivo di riscrittura a partire da una struttura data, quasi canonica, in cui l’azione non diviene evento, ma è relegata ancora una volta ai margini del buio. Per essere sostituita dalla parola, dal racconto di ciò che è successo. La storia non accade. Si narra (e quasi si costruisce un ponte ideale con altri film passati a Venezia…). Ma Lav Diaz parla la lingua delle immagini, passando dalla precisione liberissima di quei piani fissi in profondità di campo, in cui ogni elemento e ogni figura è un veicolo di senso, oltre le gerarchie imposte, a quegli ultimi momenti, in cui finalmente deve mettere a fuoco, fuori fuoco, per provare a fissare un punto. Ma è un punto che non tiene. L’ultimo disperato tentativo di stabilire una coordinata. Le storie si narrano. Eppure girano in tondo. Come le vite. C’è sempre qualcosa, qualcuno che resta altrove. Perso nell’indistinto del caos, dell’ignoto, del dimenticato.

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