#Venezia73 – Voyage of Time: Life’s Journey, di Terrence Malick
Malick non ha paura. Canta se stesso, celebra se stesso, ma in questo modo canta (del)l’uomo e condivide ogni atomo con tutti noi. Voyage of Time diventa così un Life’s Journey. In concorso.
“Canto me stesso, e celebro me stesso,
E ciò che assumo voi dovete assumere.
Perché ogni atomo che mi appartiene appartiene anche a voi.”
Walt Whitman
Il tempo, il movimento, la ricerca del sacro (nell’immagine). Ci risiamo. Che dire ancora? Le inquadrature di Malick continuano a muoversi, tra acqua e terra, forme informi e forme formate, immanenza e trascendenza, infintamente grande e infinitamente piccolo, dinosauri e città. Saltati tutti i raccordi, trascesi tutti i canoni linguistici, rimane solo il fluttuare nelle cose del mondo per cercare l’origine di ogni movimento contingente. È l’ennesimo paradosso malickiano questo Voyage of Time: una produzione durata quasi dieci anni, frammentata in ogni progetto precedente, riconosciuta come il film a cui tutti gli altri hanno teso: dalla genesi (la ricerca dell’uno) in The Tree of Life, all’amore (il mistero del due) in To The Wonder, sino allo sguardo del fantasma (del cinema?) nell’oltremondo Knight of Cups. Il fuori-campo di tutti questi film era appunto un viaggio che solcasse il tempo e cantasse di una Madre (natura) latrice di un sacro (immortale) da ricercare solo nell’uomo (il centro di ogni riflessione, anche religiosa). Ma a Malick non è mai interessata la stasi delle cose ma il divenire delle stesse, l’essere, e per questo non declama mai la presenza di un “bene già dato”, semmai di una “tensione verso il bene” che va sempre cercata e mai trovata. Un bene che non può morire – ci dice la voce fuori campo di Cate Blanchett -, colto in una tensione visibile che solo il cinema può ancora impastare all’immagine aprendosi a originarie armonie vi(si)ve e sopravviventi. In Malick ogni forma, ogni gesto, ogni sguardo solca il tempo e trova echi al di là delle epoche, in un’armonia che le immagini bramano e manifestano con commovente sforzo.
Il viaggio. Il film manifesta un’insolita struttura narrativa, che segue il percorso dell’evoluzione del Pianeta Terra: dal Big Bang alla comparsa dei dinosauri, dall’inizio dell’era dei mammiferi alla nascita della coscienza (e della conoscenza) nell’uomo. Un (non) documentario che non tenta mai una canonica referenza documentale (per documentare cosa esattamente?), ma che comprende addirittura la CGI come ultima frontiera di credenza. Animali e icone infografiche si rincorrono e si interfacciano, senza più riconoscerne un confine se non quello della credenza nell’immagine di chi (ci) guarda. In questo flusso ininterrotto di rime visive e sbalorditive epifanie estatiche – dalle fluide macchie digitali all’abbagliante volteggiare delle meduse, dai dinosauri sintetici che risorgono ai vulcani marini che esplodono, dai pesci preistorici che amoreggiano alle città ipertecnologiche che illuminano – rimangono solo le persone a segnare l’ultimo scarto possibile per dare un senso a quest’imponente e criptico costrutto filosofico e/o spirituale.
La vita. Eccoci al punto: è in questa forte consapevolezza malickiana che erompe, tra le foglie d’erba, Walt Whitman (ancor più di Heidegger): le persone sono l’unico/ultimo tra che le immagini ancora si concedono. Mai come in questo caso Malick scopre le sue carte, rende chiaro il suo pensiero, abbandonando definitivamente gli ultimi residui di personaggio per arrivare direttamente alle persone: in queste immagini così costruite, programmate, volute, montate, adorate o a volte derise – ormai da tempo, dopo ogni film di Malick, si sentono frasi come “sembra il National Geographic, lo spot di un’agenzia viaggi, ecc, ecc” – balenano improvvisamente inserti in bassa definizione, immagini grezze, rumorose, mancanti, debitrici di molte informazioni, tutt’altro che perfette… e in queste immagini imperfette Malick confina il “noi”. Riti e miti umanissimi si sovrappongono (un matrimonio, una corrida, una manifestazione, un teatro di guerra, la povertà metropolitana, ecc) e creano crepe nel flusso atemporale così magniloquente. Il dettaglio dell’occhio di una bambina diventa il punto di fusione del Mondo.
Le persone. M alick non ha paura: canta se stesso, celebra se stesso, ma in questo modo canta (del)l’uomo e condivide ogni atomo con tutti noi. Malick crede. Crede ciecamente nel suo spettatore ma esige anche un totale abbandono, perché in quest’ossessiva ricerca del sacro originario svicolano ancora (e per fortuna) le contraddizioni e le basse definizioni delle nostre vite. È in questo sublime scarto che l’ambiziosissimo Voyage of Time diventa un intimo Life’s Journey: Malick vuole toccare il cielo ma parte ancora dall’acqua, ossia dal primo-medium, filtrando l’emozione infinita di un nostro antenato che ci (ri)conosce per la prima volta e ci porge una mano azzerando lo schermo. E in quel piccolo, infinitesimale, imperfetto spazio-tra dell’immagine avvertiamo ancora la presenza di una vita. Della Madre.