#Venezia73 – Wim Wenders, Les beaux jours è il mio omaggio al cinema francese

Wim Wenders porta in concorso Les beaux jours d’Aranjuez, dal testo teatrale di Peter Handke, film quasi interamente in lingua francese prodotto da Paulo Branco. La conferenza stampa di oggi

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Alla costatazione di una giornalista secondo cui il direttore Alberto Barbera sarebbe ottimista riguardo alle sorti del cinema, Wim Wenders aggrotta vistosamente le sopracciglia. Siamo alla conferenza stampa veneziana dell’ultimo film del regista tedesco, Les beaux jours d’Aranjuez 3D, un coproduzione franco-tedesca, in uscita nelle sale mondiali il 2 novembre 2016, mentre in Francia anticipatamente il 5 ottobre.

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La discussione è virata ampiamente sulla questione del futuro del cinema e sul tema della comunicazione, certamente corposo nel film. Il regista dice di non essere così ottimista sulle sorti della settima arte come Barbera, sottolineando, piacere a parte, il disturbo di sapere che molte persone oggi guardano i suoi lavori su un tablet o dispositivi simili. Wenders parla di cinema come baluardo di verità, bacino di storie, insomma come ventata di importanza innegabile e per questo infinita, anche nel tempo, che sottogiace però al modo in cui chiunque si adegua ai trapassi tecnologici. Il suo film, improntato sulla tecnologia 3D, la rende assolutamente strumento indispensabile per mostrarci quel paradiso, il cinema che citavamo prima, che costituisce per l’autore l’ultimo Eden in cui rifugiarsi. Un giardino, quello della pellicola, proiezione della filmografia di Rohmer, da lui citato, e di un cinema francese che sente come suo, regalandosi dopo anni il suo primo prodotto quasi interamente in lingua francese.

L’intervento del produttore portoghese Paulo Branco ha decisamente ricordato la stretta collaborazione tra i due avvenne ad una cena in cui era presenta anche Peter Handke, autore della pièce da cui è tratto il film. Quella tra Wenders e Branco è un’amicizia con trentaquattro anni sulle spalle e molti prodotti vincenti, fra cui Lisbon Story. E’ stato proprio il produttore a lanciare in campo l’esca del “Com’è sorto il progetto?”. L’attrice Sophie Semin è stata subito scelta dal regista che pare udisse la sua voce mentre riadattava il testo, sottolineando anche come lo stesso autore originale godesse di lei come musa. Semin ha evidenziato come sia stato arduo non fiondarsi in contorsioni facili di quei dialoghi, di quelle pause, così importanti nel manifestare le differenze di comunicazione tra uomo e donna. Il progetto è stato costellato di tante prove e ripetizioni per cercare il giusto affiatamento. Gli altri due attori Jens Harzer, lo scrittore, e il compagno di scena della Semin, Reda Kateb, hanno condiviso l’importanza di un gioco a più mani. Il secondo era di certo agevolato dall’aver interpretato il ruolo anche a teatro e aver gioito nel tramutare quel personaggio secondo gli orizzonti visivo/cinematografici di Wenders.

Più volte, dopo la sottolineatura di elementi scenografici old fashioned, si è citato il termine nostalgia, tuttavia sia il regista che l’attrice  hanno tenuto a rovesciare completamente la presenza di quegl’elementi in quanto cimeli di una golden age, bensì come strumenti chiave nel creare una certa primigenia, ad esempio un uomo e una donna di fronte ad una mela (che immagine più primitiva si potrebbe addurre?). 

La discussione ha poi marciato verso le disparità d’approccio dei due sessi e la protagonista ha riflettuto sull’interiorità che il suo ruolo richiedeva, una chance di portare un io scevro di sessualità, di ammiccamento, ma ricco di tonalità si può dire profonde.

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