#Venezia74 – Körfez (The Gulf), di Emre Yeksan

Yeksan riesce a rappresentare, con metafore leggere ed originali, molte delle problematiche sociali contemporanee. Una rivelazione alla Settimana Internazionale della Critica.

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La perdita del lavoro ed il contemporaneo divorzio, costringono Selim a tornare a vivere con i suoi genitori nella natia Izmir. Qui lo attendono le consuete dinamiche familiari, sempre in bilico fra protezione e rimprovero, ma anche la possibilità di riallacciare una fugace relazione con un vecchio amore di gioventù. Soprattutto, però, Selim incontra Cihan, un vecchio commilitone di cui non ha memoria. Cihan diventa per Selim una vera e propria guida all’interno di quello che, ci si aspetterebbe, essere un percorso di ricostruzione del proprio io sulle solide la basi della memoria, ma che diventa ben presto la costruzione di una personalità tutta nuova e, forse per la prima volta, aperta all’idea di comunità.

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Quando è da solo, Selim, si aggira per la sua città in un costante stato di spaesamento, non tanto come se non riconoscesse nulla di quello che lo circonda, ma più probabilmente come se non riuscisse più a mettere a fuoco se stesso in quel contesto. E’ spesso preda di visioni, di situazioni surreali, che sembrano volerlo avvisare che la sua costruzione mentale si sta pericolosamente sfaldando e che avrebbe bisogno, come direbbero in un film americano, di riconnettersi con il suo io profondo.

L’incontro con Cihan, sembra anch’esso un momento onirico, tanto da far dubitare il protagonista della sua reale identità. Ben presto però, Cihan si dimostra l’unico che riesce a smovere Selim dal suo torpore.

Quando l’incendio di una petroliera al porto crea un disastro ambientale rilevante che genera una puzza nauseabonda (di decomposizione?), la reazione dei familiari di Selim è dapprima quella di far’ finta di nulla, indossando semplicemente una mascherina, salvo poi essere costretti ad abbandonare le loro case. Selim, che sembra immune dalla puzza, come anche Cihan e gli altri membri della sua comunità, riesce solo allora a trovare la forza di cominciare ad integrarsi con quegli strati di popolazione che sono rimasti in città riscoprendo (o forse conoscendo per la prima volta) il senso della comunità.

Yeksan, al suo debutto nel lungometraggio, riesce a rappresentare, con metafore leggere ed originali, molte delle problematiche contemporanee, a cominciare dalla putrefazione del mondo di fronte alla quale si tentano dapprima soluzioni scioccamente palliative (la mascherina), salvo poi mettersi in fuga (o, meglio, alla ricerca di qualcos’altro da consumare) di fronte al perdurare del problema. Ma il cuore dell’opera va cercato, senza dubbio, nel modo lieve ma al tempo stesso estremamente efficace con cui riesce a rappresentare i rapporti fra le classi sociali: dall’iniziale invisibilità delle classi più basse (per questo Selim non si ricorda di Cihan, semplicemente perché lui non lo aveva mai realmente “visto”) alla necessità della costruzione di una società nuova in cui l’integrazione è non solo possibile, ma addirittura gioiosa, come viene rappresentata nel bellissimo (e indubbiamente ottimistico) finale in cui, appunto, una nuova comunità sembra costituirsi sulla vetta di una collina, finalmente libera, gioiosa e vitale.

Infine, bisogna segnalare come il cinema turco si stia dimostrando particolarmente abile nell’utilizzare la via del surreale per rappresentare la società contemporanea, non solo turca. Viene subito in mente il bellissimo (anche se ben più paranoico) Abluka di Emin Alper, passato qui in Concorso due anni fa, in cui, come in questo, i momenti surreali sembrano rappresentare la vera essenza del film e attraverso i quali si riescono a porre elementi di critica sociale non direttamente affrontabili, come il controllo sociale attraverso i delatori (all’inizio Selim si domanda chi sia in realtà Cihan, visto che lui non ne ha memoria), oppure la brutalità della polizia.

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