#Venezia74 – Piazza Vittorio. Incontro con Abel Ferrara
Ferrara è a Venezia con Piazza Vittorio, documentario sulla controversa e multietnica piazza romana. Il regista ci racconta la quotidianità della piazza e il suo rapporto con l’Italia da immigrato
“C’è via Merulana che come il Tevere segna uno spartiacque fra due parti del quartiere e collega San Giovanni a Santa Maria Maggiore. Poi c’è la stazione Termini. E poi c’è Piazza Vittorio che è un quartiere all’interno di un quartiere. Io non vivo a Roma, vivo a Piazza Vittorio. Questo è il mio mondo.”
Fuori concorso a Venezia, il regista italo americano Abel Ferrara ha raccontato stamane la genesi del suo documentario Piazza Vittorio, dedicato alla controversa piazza romana in cui ormai abita da molti anni. Il documentario si svolge nell’arco di una giornata, e nella piazza multietnica il regista intervista le tante persone che lo abitano, gli immigrati ma anche i residenti da più generazioni, alternando le storie raccontate con bellissime immagini della piazza dell’Istituto Luce. Nel film compaiono anche riprese realizzate col telefonino, attimi della quotidianità della piazza catturati dal regista durante le camminate di ogni giorno. “Fare un documentario è come scrivere un diario. Parlo della mia vita, di ciò che vedo ogni giorno. In realtà non credo ci sia davvero differenza fra documentario e fiction, fra l’attore e l’essere umano.”
Considerata la piazza multietnica di Roma, Piazza Vittorio è abitata da persone da tutto il mondo: cinesi, africani, indiani ma anche messicani e peruviani. “Da moltissimi anni ormai nel quartiere c’è un equilibrio fra curiosità e avversione. Gli italiani sono un popolo di esploratori per tradizione ma al contempo sono molto attaccati alla tradizione stessa. Ma la convivenza va avanti da molto tempo da prima che si parlasse di problema dell’immigrazione. Il problema dell’immigrazione diventa a tutti gli effetti un problema quando lo si definisce tale“.
“Si tende a mostrare la situazione più drammatica di quello che è“, continua il montatore Fabio Nunziata. “Si dà la colpa agli stranieri per problemi che sono più grandi: il problema è la crisi economica, gli immigrati scappano da paesi in guerra e arrivano in un paese che è in grandi difficoltà economiche. È una guerra fra poveri”. Nunziata spiega anche la genesi tecnica del documentario: “Le riprese sono state fatte un anno fa e sono durate 5 o 6 giorni. Più che il luogo ci interessava riprendere le persone per restituire l’anima del quartiere che è molto bello ma anche pieno di contraddizioni. Nel documentario compare anche Abel, e questo è un esperimento che avevamo già iniziato a fare con Napoli Napoli Napoli, mettendolo in campo e forzando anche un po’ la situazione perchè Abel non ama mostrarsi, ma la sua è una presenza molto creativa. E poi c’è molto lavoro nel montaggio a cui Abel pensa già da prima, perchè cerca il film nel montaggio stesso strada facendo. Lo vive proprio come una riscrittura.”
Un aspetto molto bello emerge dal film grazie alle interviste fatte a persone da provenienti tutto il mondo ma anche da diverse parti d’Italia: in fondo siamo tutti degli immigrati, anche all’interno della propria nazione. “La gente si sposta, da sempre. Mio nonno era un immigrato, un wasp un senza documento. Il fatto è che gli immigrati di adesso sono diversi, scappano da guerre, non è la stessa cosa che fece mio nonno, mio nonno sapeva che cosa lo aspettava.”
Nel documentario inoltre compare anche l’attore e amico Willem Dafoe, trasferitosi nel quartiere anche lui molti anni fa. Il momento dedicato all’attore ribadisce perfettamente il concetto dello spostamento che appartiene a tutti. “Siamo immigrati anche noi”
Il regista lavora in Italia da 15 anni ed è innamorato dello Stivale. “Vivo qui per motivi pratici, mi sono innamorato di una donna che viveva qui e ora abbiamo una figlia, compaiono entrambe nel film. Ci sono molti aspetti che amo dell’Italia. Innanzitutto io avverto sempre la presenza di Pasolini a Roma. Era un immigrato anche lui da Bologna e prima ancora da Casarsa. Il suo volto è sempre qui per me. E poi voi avete il concetto di giornata. Anche per questo motivo ho raccontato un giorno. Ad esempio vivere la mattina per voi è una tradizione, così come il pranzo. La mia parola italiana preferita è dopo pranzo in cui tutto si ferma un po’. A New York non è così l’America non ha una tradizione culinaria e non esiste differenza fra giorno e notte, tutto è in movimento 24 ore su 24. Questo ovviamente influenza la vita. Soprattutto per questo ho deciso di venire qui. E poi il caffè lo fate meglio voi.“