#Venezia74 – The Private Life of a Modern Woman, di James Toback

Che meraviglia, sorvolare il giardino delle delizie, non in un luogo fantastico, bensì nel mondo reale di tutti i giorni. Sconvolgente opera buffa o quantomeno opera beffa. Fuori Concorso

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Ad un certo punto, pochi minuti prima che partisse la proiezione, è apparso James Toback, senza essere annunciato, con le sue “scarpette rosse” ha attraversato il proscenio, accomodandosi su di un trespolo, non prima di aver salutato il pubblico in sala. Accertatosi che non chiudesse la visuale alla signora dietro, le luci si sono spente. In realtà, le luci nevrotiche e menzognere sulle identità sfuggenti dei suoi attori, sono riapparse dapprima meravigliosamente controllate e sezionate nello split brain e visivo di Vera (Sienna Miller) tormentata tra incubo e realtà, che probabilmente ha commesso un crimine nel suo bellissimo appartamento di New York e deve disfarsi del corpo senza vita del suo ex. Ma James Toback stavolta sfugge all’hip hop metropolitano e si ripara in Shostacovich e nel Trittico del giardino delle delizie di Bosch. Il baule è un nodo alla gola che cela Hitchcock e stringe al collo la donna in depressione per la sua carriera di attrice. In quel baule nasconde il cadavere e poi attraversa la città, raggiunge il fiume e si sbarazza del fardello. Sarà l’unica volta che lascia le sue mura casalinghe, per poi accogliere vari ospiti, tra i quali lo stesso Toback che ha fretta di prendere l’aereo, ma ingaggia un lungo interrogatorio esistenziale; arriva anche il detective (Alec Baldwin) che sospetta sull’accaduto criminale. Infine mamma e nonno cenano con lei, ma il nonno (Charles Grodin) è affetto da demenza senile avanzata, e continuamente chiede a Vera chi sia, per poi ballare abbracciati da soli. E torna prepotentemente l’affermazione del sé, l’impulso a creare, la tensione irrisolta tra rabbia e amore, l’onnipresente consapevolezza della morte.

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The_Private_Life_of_a_Modern_Woman_3Tempo, luogo e azione: è la struttura della tragedia greca. Novella e contrappunto: il Requiem tedesco di Brahms, la Settima Sinfonia di Shostakovich, la Messa in Si minore di Bach, la versione dei Cleftones di Please Say You Want Me. Frammenta, controlla, libera, dilania, James Toback è un uomo in trincea, un uomo nella fossa dei leoni, un uomo che pochi vogliono amare alla follia. Tableau in splet screen che frammenta l’anima sulla pelle sudata e oliata della bestia inferocita, ci dilania tra l’incapacità di vedere e l’enormità che le stesse immagini ci stanno mostrando. L’apparente leggerezza e fragile ricostruzione di una vita vissuta sempre in mezzo ad aggredire, è in realtà lezione al vedere, in cui si nasconde l’enigma quale chiave di ciò che continuiamo a chiamare ‘’essere’’. Vera si fa suo punto di vista, vede se stessa racconta a se stessa, qualcosa che l’oggetto del suo esperire, il mondo, là, fuori di se, che cattura con i suoi occhi blu. Quando poi, la macchina chiude sul volto e si sente il respiro di una donna normale, ti accorgi di aver vissuto a un’esperienza bruciante, un attimo prima di cadere al tappeto, prima di essere raggiunto da un terribile presagio di vendetta. La vendetta dell’istinto, delle radici, dei ricordi, del tempo che passa e ti addomestica. Intesa e attesa, il cui silenzio è un modo di abitare le immagini, proprio nell’ultima inquadratura, Vera affacciata alla finestra che incrocia lo sguardo del detective. È la leggerezza di cui Toback ci fa dono: assumere tale leggerezza assomiglia piuttosto al caricarsi del più pesante dei pesi. Toback costruisce la macchina del peccato e della redenzione, la fuga e il ritorno o semplicemente l’attesa prima di sferzare l’attacco finale, travolgente, assolutamente impensabile.

coverlgChe meraviglia, scalare il giardino delle delizie, non in un luogo fantastico, bensì nel mondo reale di tutti i giorni. Opera buffa o quantomeno opera beffa, a metà strada tra la bonarietà ed il sarcasmo, nei confronti di un’umanità prigioniera di se stessa e del proprio destino. Mattina, pomeriggio, sera e notte, e poi nuovamente mattina, in un mondo di sogni ed incubi in cui le forme sembrano sfarfallio e il cambiamento prende forma davanti ai nostri occhi. Il cinema di James Toback, come pochi altri oggi, è una profezia, il resoconto di un destino ineluttabile, proprio come ineluttabile è la luce dopo il buio. Con il passare del tempo la materia prevale sull’anima e il corpo è un detestabile intruso. Vera è l’’angoscia in forma estrema, espressa in meccanicità ritmica e melodica, la danse macabre, la fittezza disarmonica dei movimenti lenti, il rumore bianco delle immagini e le interferenze delle parole a sovrapporsi continuamente al pensiero unico. Toback è rimasto su quel trespolo, immobile, ogni tanto, durante la proiezione, la testa si chinava per stanchezza, ma lo sguardo in un istante ricorreva lungo il corpo calloso della coscienza condivisa.

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