#Venezia74 – Una famiglia, di Sebastiano Riso
Riso vuole muoversi nello spazio che va dal realismo all’astrazione, tra la carnalità dello sguardo e la sottrazione “morale”. Con più testa che cuore, rispetto all’esordio. In concorso
Una cosa è certa. Sebastiano Riso non è un codardo. Non ha paura di affrontare questioni spinose, potenzialmente disturbanti. La prostituzione minorile nel suo esordio, Più buio di mezzanotte, il traffico di neonati in Una famiglia… Più buio ancora… Quasi avesse abbracciato la missione di raccontare il lato oscuro del mondo, Riso si getta nelle ombre fitte di una storia che incupisce anche la fotografia di Pietro Basso, che inquadra, sotto i ponti della tangenziale, una Roma livida, sporca, una città in cui piove a dirotto, come non mai. “Sembra Blade Runner”, diceva qualche amico fuori dalla sala, ieri. Frase che, al di là della battuta, indica l’intuizione di una stilizzazione da cinema di genere (come già in Più buio di mezzanotte), l’idea di disseminare tra gli elementi reali e cronachistici della vicenda le tracce di un thriller potenzialmente denso, nerissimo.
La storia è quella di Vincenzo e Maria. Lui viene dalla Francia, ha un passato misterioso e poca voglia di parlare. Lei è una donna fragile, legata in maniera quasi morbosa al suo uomo, ma psicologicamente e fisicamente provata dai parti ripetuti a cui lui la sottopone, con lo scopo di vendere a caro prezzo i neonati. Un mercato nero che si regge sulla resistenza fisica di Maria, che sempre meno riesce a tenere a freno il suo dolore di madre ignota, scontrandosi per questo con la totale assenza di scrupoli di Vincenzo. Sin qui siamo dalle parti di un mélo malato, tragedia di una donna ferita nel corpo e nel cuore… l’intrigo si complica quando Vincenzo entra in affari con un medico compiacente, che lo mette in contatto con una coppia di omosessuali disposta a pagare molto bene pur di aver un bambino. Da quel momento, nulla va più come previsto.
“Messa in scena anti naturalistica e scrittura mimetica”, questi sono gli obiettivi dichiarati da Riso, che vuole quindi muoversi nello spazio potenzialmente infinito che va dal realismo all’astrazione, tra la precisione nella verosimiglianza della narrazione e il desiderio di un tratto che scontorni le figure, fino ad aprirle a un’immagine più personale, libera dai vincoli della storia, della cronaca, dell’impegno (come è metaforicamente evidente nell’ultima inquadratura dedicata a Maria, che letteralmente si scioglie nella luce).
Del resto Riso da un lato mostra tutta la carnalità della sua sensibilità, un bisogno del corpo, della pelle, della concretezza dei gesti e degli amplessi, che sono la traduzione più immediata e pura delle emozioni e dei sentimenti. E in questo senso, più che nell’interpretazione di Micaela Ramazzotti, un po’ a disagio rispetto al solito, il film ha un punto di forza nella presenza mastodontica di Patrick Bruel… Ma al tempo stesso, dall’altro canto, si lavora in sottrazione nei momenti potenzialmente più estremi e drammatici, come nella panoramica a 360 che tiene fuoricampo l’ira di Vincenzo. Scelte condivisibili, che però non tolgono il fatto che il film abbia le sue forzature. Di sceneggiatura, innanzitutto. E certo, annunciare “i fatti reali” che ispirano la storia costituisce una specie di sfida incosciente nei confronti dello spettatore, che da subito si dispone a far le pulci a ogni minima licenza poetica (come nel caso del parto). Ma non è questo il problema, almeno per noi. Anzi, avremmo preferito a questo punto ancor più libertà, ancor più forzature, ancor più oscurità, ancor più mélo… Il punto, forse, è che per l’estrema cura formale, il film perde un po’ dell’immediatezza emotiva di Più buio di mezzanotte. Un’immediatezza alle volte persino brutale, incontrollata, ma che era il segno di un’urgenza più viva e netta. Qui Riso sembra aver usato più la testa che il cuore. Com’è evidente in alcune scene programmatiche, specie quella del dialogo tra Fantastichini e Brul… Non è detto che sia un difetto. Ma di sicuro, facciamo più fatica a coprire la distanza…