#Venezia74 – Undir Trénu, di Hafsteinn Gunnar Sigurðsson

Sigurðsson con Undir Trénu si muove nei comodi confini della tanto apprezzata satira nordeuropea, replicandone alla perfezione i tanti cliché ma svilendo il proprio messaggio.

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Il vicino è il mio nemico, non lo posso sopportare. In un modo o nell’altro io lo devo eliminare cantavano i Punkreas nei primi anni novanta, in uno scatenato inno contro le convenzioni del “buon vicinato”, quel trionfo arrogante della più bieca ipocrisia sociale. Anche facendo un grande sforzo di fantasia non crediamo che il regista islandese Hafsteinn Gunnar Sigurðsson, assunto agli onori con il suo Either Way (vincitore di Torino e prontamente rifatto da David Gordon Green), possa conoscere la band punk lombarda. Eppure lascia sorpresi come il suo Undir Trénu porti avanti, attraverso la stessa metafora narrativa, la medesima critica sociale della canzone citata. Il film, infatti, si concentra sulla piccola e infame guerra tra due nuclei familiari vicini che, dal futile litigio su un albero da potare, raggiunge un’atroce escalation distruttiva.

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Sigurðsson si muove nei comodi confini della tanto apprezzata satira nordeuropea, replicandone alla perfezione i tanti cliché. Il grottesco di maniera, lo humor nero ad effetto, la stigmatizzazione sprezzante del ceto medio e le atmosfere glaciali sono ingredienti che trovano tutti il loro posto in un film che, dimostrandosi troppo intelligente, troppo costruito, si perde in un anestesia emotiva snervante. I dolori dei protagonisti, distanti tra loro per futili prese di posizione ma uniti da disastri umani simili, vagano nell’opera con ritmo meccanico, lasciando lo spettatore divertito, perfino sconvolto ma mai toccato. Il regista, cosi, consegna alla propria opera un messaggio indebolito, diluendo i suoi punti di forza, e alcune ottime intuizioni, nel flusso di una trama calcolata al dettaglio.

Eppure il movente emotivo che spinge i personaggi di Undir Trénu a trasformarsi in mostri è decisamente interessante. Sigurðsson, infatti, individua nell’affermazione di una genitorialità ossessiva, destinata a frantumarsi dietro figli che si cercano, che non si trovano, che vengono “rubati” il peccato originale. E’ proprio questo il punto di partenza da cui inizia il calvario di ogni protagonista, la condanna di una società che, nell’arroccarsi dentro il minimo di “una famiglia”, costruisce il proprio egoismo e la propria violenza verso il prossimo. Una lettura più che condivisibile che, purtroppo, muore dietro le regole di un invadente canovaccio autoriale.

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