#Venezia74 – Uno sguardo sui corti di MigrArti 2017
Daniele Gaglianone, Filippo Ticozzi, Guido Lombardi, Mellara e Rossi, Paolo Civati, Fausto Romano: sei tentativi di raccontare l’anima migrante dell’Italia di oggi attraverso l’armamentario breve
Su un totale di oltre 500 progetti presentati, a Venezia sono approdati i 23 cortometraggi vincitori del bando MigrArti 2017, ideato come affermato dal ministro Franceschini “per far conoscere e dare voce alle culture e alle comunità di immigrati presenti nel nostro Paese”. I lavori sono ora visibili sulla piattaforma di streaming RAI, qui.
Tra abbozzati tentativi di costruire micronarrazioni su situazioni multiculturali e pedinamenti del reale, spiccano per l’abituale lucidità e l’esemplare convinzione di non cadere nelle trappole di uno sguardo forzatamente riconciliato, i corti firmati da Daniele Gaglianone e Filippo Ticozzi, entrambi non nuovi al confronto con la tematica.
Basterebbe fare attenzione al gioco dei fuori fuoco che Gaglianone opera instancabilmente con l’obiettivo della sua mdp in perenne movimento orizzontale, nel suo Joy, per chiarire una volta per tutte come la scelta di sguardo e la posizione del confronto (che è innanzitutto una questione formale, di costruzione letterale del quadro) precedano la politica delle storie e dei messaggi “giusti”: ancora una volta tra classe e insegnante c’è una distanza che appare incolmabile, ed è come se i personaggi chiedessero guardando dritti nella macchina da presa la magia di accorciare la misura, inventando attraverso i poteri del “mezzo” un linguaggio nuovo che possa tenerli insieme tutti, le lingue, i dialetti, le provenienze, le appartenenze e quel non detto che aleggia sulle tavolate familiari. La domanda se il cinema possa riuscire o meno nell’impresa, continua ad essere quella cruciale nella ricerca di Gaglianone, e probabilmente il quesito-chiave di un progetto come quello di MigrArti.
Ancora più esplicita la scelta di campo di Filippo Ticozzi, con un procedimento che ricorda quello attuato per il precedente Moo Ya, in cui le figure umane si scorgono ai lati – se non proprio intraviste solo di passaggio, agli angoli – di un’inquadratura “disumana”, un’impalcatura che fa riecheggiare le voci che si perdono tra le corde del ring della palestra e rimbombano sui soffitti dei palazzetti dello sport, dove Johnny il pugile si allena e boxa. A che altezza va posta la macchina da presa per incrociare realmente l’anima di queste storie? Per Ticozzi la risposta è sempre ad altezza orizzonte, verso l’infinito di prospettive smarginate come il mare del finale, a cui il protagonista affida una nuova voce destinata a perdersi e a svanire, quella che legge la lettera destinata al padre lontano.
La palestra e il pugilato ritornano ne L’incontro, di Mellara e Rossi, come l’espediente del laboratorio teatrale affrontato da Gaglianone è al centro anche de La recita, di Guido Lombardi, della scuderia Figli del Bronx, il lavoro che vince il titolo di Miglior film della selezione (gli altri premi: miglior regia a Jululu di Michele Cinque, menzione speciale a La macchia, Interno 4 Safari e L’amore senza motivo di Paolo Mancinelli sulla storia di Majid, il ragazzino siriano portato in Italia dal Papa, Miglior sceneggiatura a A mio padre e Miglior messaggio G2 Figli maestri). Ma in entrambi i casi, pur affrontando i due film brevi il tema del radar istituzionale che mantiene invisibile un’intera generazione a cui non viene data la possibilità di accedere al documento, all’autorizzazione statale, la rappresentazione di una sorta di istituzione parallela, dal basso, che agisce come un mutuo soccorso alternativo e parallelo all’assenza del Sistema si rivela unicamente espediente per una galleria variopinta di personaggi a vari livelli di estraneità, non in grado realmente di raccontare la propria conflittualità irrisolta, qui invece quasi rassegnata.
Dimostra al contrario un equilibrio sorprendente Sara, di Paolo Civati: ancora una volta il tramite è affidato al processo artistico, visite ai musei di arte contemporanea, corsi di disegno e di regia. Però in questo bianco e nero a contare è soprattutto lo sbocciare di un affetto tenerissimo, l’amore ai tempi del ramadan attraverso primi piani fragili e sospesi a cui è difficile resistere, la maniera in cui Civati lascia giusto accennate tutte le questioni “politiche” e sociali sullo sfondo trasforma il suo lavoro in un’indicazione chiara e sacrosanta di come riuscire a veicolare l’irrinunciabile apparato d’impegno con tutta la leggerezza impalpabile delle ellissi del cinema.
Proprio sul versante più spensierato e favolistico, la sortita più divertente è probabilmente La giraffa senza gamba, del salentino Fausto Romano: le immagini parlano la lingua colorata e bislacca dei disegni e della fantasia dei bambini, ad allargare i confini è proprio la caparbietà della piccola protagonista che sovverte regole e chiusure degli adulti, con il suo carnevale fuori stagione dal sapore liberatorio.