#Venezia75 – Bêtes blondes, di Alexia Walther e Maxime Matray

Per la Settimana Internazionale della Critica, Walther/Matray portano un film tragicomico alle soglie dell’illogicità sfrenata. Oltre la demenzialità, un cuore drammatico raccontato con dolcezza.

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Che farsene di un personaggio passivo, dissennato, sostanzialmente inconcludente e privo di motivazioni in ogni circostanza o confronto? Proprio ogni cosa, in effetti! Dalla comicità più sconclusionata agli attimi surreali e tristemente malinconici che fanno avvicinare lo spettatore al vissuto rimosso di questo Fabien (Thomas Scimeca), protagonista di Bêtes blondes, si può per l’appunto costruire tutto un mondo di relazioni e possibilità, a cominciare dai buchi di memoria sempre da ricompattare e finire poi con il bizzarro assemblaggio padre/figlio tra due personaggi talmente poco compatibili tra loro da risultare giustappunto esemplari.

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I registi Alexia Walther e Maxime Matray, qui alla loro prima prova con il lungometraggio, scelgono lucidamente di assortire un prodotto tragicomico posizionandolo sulla soglia dell’illogicità più sfrenata ma con tocchi di estrema delicatezza, narrativa e di stile. Il loro biondissimo Fabien è un uomo derelitto, ex star di una vecchia sitcom televisiva demenziale, soggetto senza qualità alcuna che vegeta in luoghi fortuiti, deruba gli altri quando può e si ingozza senza freni di tutto ciò che gli capita a tiro.
La sua nasce come una storia priva di senso, fin da quando lo vediamo svegliarsi nel cuore di un bosco di montagna, lontanissimo dalla Parigi dove crede ancora di trovarsi, sempre solo, affamato e con una bottiglia semivuota in mano a fargli compagnia. Quasi la caricatura d’un uomo, o una bestia da strada che non sa distinguere con coscienza dove mettere un freno agli impulsi del corpo e agli squilibri della mente, come la macchina da presa ci ricorda abbondantemente prestando una notevole attenzione al basso-organico del mondo intorno a lui.

L’alienazione folle di Fabien incontra poi quella di Yoni (Basile Meilleurat), giovane tenente omosessuale che combatte contro il dolore per la recente perdita del compagno Ricki. Incontro a dir poco stravagante per la coppia, che si ritrova al capezzale del giovane defunto con una testa decapitata da portare in giro in decappottabile come “pegno d’amore”, con tutte le complicazioni del caso e spassosi momenti da comicità surreale troppo raramente così ben congeniati.
Eppure, a ben guardare, sotto lo strato comico di giochi di corpi spastici e demenzialità, si riconosce un livello drammatico e sensibile del film: la memoria sempre fallace di Fabien racconta di un vuoto scavato per lungo tempo e di una perdita talmente atroce da aver falciato l’uomo e i suoi razionali rapporti col mondo. E con lui il silenzioso Yoni, anch’egli aggrappato visceralmente a una “testa senza corpo”, ultima àncora del reale destinata a lasciare anche lui precocemente.
C’è allora un modo con il quale giocare sulla morte, sugli amori perduti, sui fallimenti dell’uomo in questa vita, ed è proprio quel gonfiare dolcemente che Walther/Matray mettono in atto sfruttando la disinvoltura del loro ottimo Scimeca.
Comico e triste fino alle lacrime, leggero quanto basta e amaro nei punti giusti: un film educatamente selvaggio – proprio come Scimeca – che sfocia in una giusta densità allucinata.

 

 

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