#Venezia75 – Dachra, di Abdelhamid Bouchnak

Evento di chiusura della Settimana Internazionale della Critica e primo horror tunisino, il film esplora il conflitto tra modernità e tradizione con forza visiva e un’esaltante urgenza narrativa

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Una tensione irrisolta, una voglia di scoperchiare il vaso di Pandora per guardare in faccia le zone d’ombra del passato, un confronto divertito, ma serio, con le grandi tradizioni cinematografiche: le ambizioni che muovono Abdelhamid Bouchnak in questo suo primo lungometraggio sono notevoli e differenziate, sembrano pescare direttamente da un vissuto che guarda alla Storia della Tunisia, ma evidenziano pure un latente senso di inadeguatezza rispetto alle forme della cinematografia autoctona, e la voglia pressante di aprire nuove strade. Sarà per questo che Dachra si offre con il marchio del primo horror tunisino, con uno spirito fortemente radicato nella propria cultura, ma con una ricerca stilistico-narrativa che guarda alle scuole occidentali. La storia vede così tre amici – Yassmine, Walid, Bilel – alle prese con un classico progetto studentesco, che li porterà a indagare sul “caso” di una donna internata da 20 anni con accuse di stregoneria. Armati di fotocamera e microfoni, i tre giungeranno così in un isolato villaggio nei boschi…

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Il “Tunisian Witch Project” di Bouchnak, però, è ben distante dalla volatilità dei classici prototipi a strumentazione leggera, insiste su un’idea di messinscena forte ed esprime l’inadeguatezza crescente dei suoi personaggi isolandoli costantemente negli angoli dell’inquadratura in Cinemascope. L’effetto di decentramento è sublimato da una desautorazione degli sfondi, spesso sfocati, neutri, che non liberano l’immagine ma la caricano invece addosso ai volti e alle figure che si muovono raminghe nello spazio. Nel frattempo si definiscono le relazioni, il piglio volitivo di Yassmine – l’ottima e semi omonima Yassmine Dimassi – rispetto a quello più disincantato e ironico dei due uomini, sempre impegnati in futili scaramucce. La triangolazione conferisce alla prima parte un andamento ondivago, con inserti horror dal sapore abbastanza tradizionale, qualche spavento e un meccanismo whodunit che fa montare progressivamente la tensione.

Nell’esplosione del terzo atto, Bouchnak lascia poi correre a briglia sciolta i personaggi, li inchioda in situazioni che rivelano definitivamente la natura fortemente materica del “suo” horror, che ricorda quasi le epopee fulciane: ma allo stesso tempo evidenzia il precipitato metaforico di un conflitto ancora irrisolto nella società tunisina, fra una gioventù che reclama la propria individualità, e una tradizione ripiegata su ritualità arcaiche – concetto sublimato dalla cornice che indica come la storia sia basata su eventi reali e quanto la stregoneria ancora sia praticata nel Nord Africa. Ne vien fuori un film dal sapore moderno, ma che corteggia riti e pulsioni ancestrali, primordiali, e avviluppa la visione in un vortice di inaspettata potenza. Una grandeur quasi epica, che in barba all’indipendenza produttiva – Bouchnak racconta di aver dovuto penare parecchio per chiudere il progetto, affidandosi infine all’autoproduzione –  ribadisce il carattere forte di un progetto caratterizzato da una esaltante urgenza narrativa.

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