#Venezia75 – La quietud, di Pablo Trapero

Fuori Concorso, Trapero tira fuori una storia di segreti privati e nazionali mascherata da commedia hot tra sorelle. Funziona a intermittenza, con la solità vitalità dello sguardo del cineasta

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Ci deve essere un motivo dietro il reiterato gioco delle crudeltà familiari e amorose che i personaggi de La quietud si infliggono l’un l’altro senza mai un accenno di pietà, per anni: piccole cattiverie tra sorelle, madri anaffettive, gelosie, dispetti e tradimenti. Trapero si butta a capofitto negli intrecci di letto della famiglia di Eugenia e Mia, manco fosse un Paolo Genovese argentino: set in larga parte unico in grande tenuta di campagna, ictus dell’anziano padre come incidente scatenante per radunare tutti alla resa dei conti, segreti nascosti tra le fotografie ingiallite e gli incartamenti a cui non si dà mai importanza.
All’inizio, la sensazione è quella che l’espediente serva al regista di Elefante Blanco soprattutto per imbastire scene di sesso decisamente esplicite e hot tra componenti incrociati ed allargati del nucleo, il che si accorderebbe con l’animo gioiosamente gaudente del suo cinema degli esordi.
Col proseguire del film, che si concede anche la vanità di un arzigogolato pianosequenza centrale che inanella tutte le combinazioni di coppie fedifraghe coinvolte nel gioco al massacro, piano piano la ragione di tutto questo odio spintona per venire a galla – ed ha a che fare con la dittatura argentina e le torture inflitte ai prigionieri dell’ESMA, la tristemente celebre Escuela de Mecánica de la Armada di Buenos Aires, trasformata a fine anni ’70 in carcere per interrogatori la cui brutalità è stata più volte raccontata sullo schermo.

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Fanno paura, gli scheletri nell’armadio di sua maestà Donna Esmeralda (Graciela Borges, non a caso una star veterana delle soap opera argentine), quindi la notte probabilmente è meglio stringersi sotto le lenzuola alla persona che hai più vicina, in camera: il livello della metafora, tra prigionia e rapporti di forza, diventa progressivamente sempre più esplicito, e in qualche modo serve anche per rassicurare la coscienza dello spettatore che colpevolmente si stava divertendo anche solo con le continue seduzioni tra Martina Gusman, Bérénice Bejo, Edgard Ramirez, Joaquim Furríel.
Trapero condisce con qualche leziosità di troppo una formula perfetta per i mercati internazionali con questo cast multi-passaporto, e già pronta per essere venduta come script da adattare in commedie brillanti di altrettante diverse cinematografie “borghesi”.
Con una certa attenzione, ogni volta che la narrazione rischia di ingolfarsi in eccessivi testacoda del subplot avvocatesco o delle rivelazioni a valanga (terreno ideale per i monologhi drammatici delle attrici, che quasi vorrebbero rubarseli a vicenda, come nella sequenza davanti al filmino delle vacanze, con un litigio in cui vengono urlati solo numeri, quasi fossimo in una performance di teatro sperimentale), il film opera un tentativo di virata per spezzare la tensione con alleggerimenti o accoppiamenti in ambientazioni mutevoli (dagli alberghi a ore agli abitacoli delle auto parcheggiate all’aeroporto).

Il risultato è bislacco, non proprio equilibratissimo, in più punti estenuante: sono i limiti del cinema di Pablo Trapero, che nei suoi, intermittenti, momenti più felici rimane in grado di nasconderli sotto la contagiante vitalità del suo sguardo.

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