#Venezia75 – Monrovia, Indiana, di Frederick Wiseman

Ci riasiamo. Guardando anche solo poche inquadrature di un qualsiasi film di Wiseman si avverte una miracolosa adesione alla materia trattata e si ripone una totalizzante fiducia nel suo sguardo.

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Ritrovarsi a parlare del cinema di Wiseman è come schiudere una porta familiare, rientrare a casa e poi abbandonarsi con intima fiducia a uno sguardo che non può tradire. Dalla Northeast High School di Philadelphia ai corridoi del Bridgewater State Hospital di Titicut Follies, attraversando quattro decenni di storia (del cinema) per arrivare alle aule della New York Public Library, ai corridoi di (At) Berkeley, alla National Gallery di Londra o nelle strade di Jackson Heights a New York… ogni spazio attraversato diventa “cinema” perché abitato dalle persone, vissuto nel loro tempo, testimoniato da un occhio silenzioso e rispettoso. Perché l’occhio di Frederick Wiseman è alla costante ricerca del dato umano che si agita dietro le pubbliche istituzioni, rappresentazioni, manifestazioni, testimoniando uno stato delle cose e nello stesso tempo coinvolgendo lo spettatore come parte attiva di un pensiero in divenire.

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Monrovia, Indiana, 2017. Wiseman ci porta questa volta in un piccolo centro nel cuore dell’America (poco più di 1000 abitanti). Sceglie quindi un esempio paradigmatico per intercettare sul campo le forze sotterranee che attraversano la società americana e indirizzano ogni contemporanea scelta politica, etica, religiosa, interfacciandosi alla Frontiera e al Puritanesimo come le paradossali polarizzazione atemporali dell’american way of life. Monrovia ha un’economia basata fondamentalmente su allevamento (suini e bovini in particolare) e agricoltura (il Midwest è uno dei più grandi granai d’America), una profonda fede religiosa e una straniante assenza di disoccupazione. Ma se è vero che nei film di Wiseman non c’è spazio per il privato (perché questo cinema nasce dalle relazioni tra i privati) a Monrovia assistiamo a una radicalizzazione del concetto dettata proprio dalla piccola comunità di riferimento: le istituzioni da indagare diventano sempre più le singole persone che interagiscono in spazi pubblici parlando e mediando il sentire comune.

Eccoci alla dimensione politica del film. Il Midwest – roccaforte di Donald Trump con più del 60 per cento di voti a favore nel 2016 – viene osservato con il solito occhio etnografico, mai forzando le apparenze per inseguire facili pregiudizi e mantenendo sempre la giusta distanza. Insomma siamo sempre noi i referenti ultimi delle innumerevoli significanze che il dato reale custodisce e rilancia nel cinema. E allora: le persone sembrano non guardare mai oltre i confini del villaggio, Monrovia first! si potrebbe quasi sintetizzare. Nessun accenno alla situazione politica nazionale, nessun accenno ai pericoli delle attuali “guerre dei dazi” in agricoltura, nessun accenno alle tensioni razziali che agitano le metropoli americane e nessuna voglia di oltrepassare quel confine guardando il mondo. Nei discorsi, nei ricordi, nei desideri e negli sguardi di queste persone sembra esserci solo lo spazio e il tempo di Monrovia. Una riflessione incredibilmente importante e attuale per comprendere le molte spinte neo-nazionaliste che il XXI secolo ci sta proponendo. Wiseman attraversa le istituzioni civiche e religiose, la massoneria e le associazioni sportive, le fattorie e le aziende agricole, la scuola e i negozi (dal barber shop ai liquori, dalla pizzeria alla macelleria), cogliendo nel montaggio di quei discorsi un discorso aperto di rodata e incrollabile etica cinematografica.

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Monrovia diventa così una bolla atemporale che schiude miracolosi incroci tra perturbanti non detti (il sovrappeso di molti abitanti del luogo, la densità bassissima di minoranze etniche, il disinvolto uso delle armi) e la serena elegia della vita di frontiera (i paesaggi sconfinati e bellissimi, la rete sociale che attutisce ogni scossa, la credenza nelle istituzioni cittadine). Ma c’è qualcosa di più. Questo è un film che configura un’ideale dialettica tra il cielo (i costanti campi lunghi sulla frontiera) e la terra dove coltivare, allevare, morire (tornando ciclicamente in un cimitero che custodisce le memorie della guerra civile). E queste due tendenze si coagulano nella sequenza del funerale finale di una madre e moglie di Monrovia: evento “pubblico” restituito in un segmento di spropositata lunghezza rispetto a ogni altra traccia nel film che arriva come culmine di un ragionamento sotterraneo sul ciclo della vita di commovente delicatezza. L’America profonda è racchiusa tra il cielo inglobante di John Ford e l’originaria melodia di Amazing Grace che schiude di per sé ogni mito del west(ern). Insomma tra le tracce documentali raccolte da Wiseman, questa volta, c’è anche il cinema classico americano che reclama uno spazio di testimonianza come istituzione pubblica che produce credenza.

Ci risiamo. Guardando anche solo poche inquadrature di un qualsiasi film di Wiseman si avverte una miracolosa adesione alla materia trattata e nel contempo si ripone una totalizzante fiducia nello sguardo che la mette in scena. Come se lo schermo svanisse e le immagini fossero fuse alla contingenza di quei semplici eventi. Come se i significati non fossero mai forzati dai significanti, ma sorgessero spontanei nei nostri pensieri fuori dalla sala. Come se fare cinema fosse la cosa più naturale, giusta e “reale” del mondo.

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